Abbiamo visto Daria esplodere dalla gioia dopo il match point a Mosca. Puoi parlare invece delle tue emozioni?
A essere sinceri, ho pianto un po’ quando lei è arrivata e l’ho stretta tra le mie braccia e lei ha cominciato a piangere forte. Ero un po’ shockato. Lavori tanto durante l’anno, sei costretto a fare dei sacrifici. Io ho una famiglia, ho dei figli che vedo poco. Quel momento mi ha ripagato di tutta la passione che ho messo per superare un’estate difficile. Ci sono state ore difficili, dove ti chiedi tante domande, poi arriva il momento dove lei vince l’ultimo punto e chiude la partita e vince il titolo. Forse un po’ di più durante l’anno, ma sai che non può accadere spesso. E per quello è stato molto forte. E quei momenti di grande adrenalina non possono che ricaricare le batterie in vista del nuovo anno.
Durante la finale hai detto a Daria che lei è la Grande Muraglia Cinese. Da dove ti è venuto il paragone?
Le persone mi chiedono spesso questo ma a dire la verità non saprei. Sono di fronte a lei, alla mia giocatrice, con un solo minuto di tempo per darle un quadro chiaro della situazione. Lei deve prendere fiato, bere, mangiare qualcosa magari, e io devo essere chiaro e spigliato. Quello che cerco di fare è di metterle un’immagine chiara in testa. Alle volte è più facile pensare che lei possa riproporre l’immagine di quello che sto dicendo per capire che cosa voglio da lei. Alle volte viene fuori qualcosa di pazzo e divertente, ma funziona.
Sai che alcuni dei tuoi coaching in campo sono diventati leggendari e che molte persone guardano con attenzione i tuoi coaching per sentire cosa dici a Dasha?
Sì, ma è anche vero che dall’altra parte si sta entrando nella privacy. So che è importante farlo per lo show e blablabla, ma questo è anche il mio lavoro. Dasha gioca bene perché ha un team dietro, con due preparatori atletici, un dottore che prende cura anche del cibo, e io che sono l’allenatore. Dunque io arrivo di fronte a lei con le telecamere puntate contro, le dico due cose e funzionano, ma il merito non è solo mio. Davvero, ok, ma non è che attendo la prossima partita per avere la telecamera puntata contro e fare uno show. Dasha è la giocatrice, è la star. Le persone vengono a vedere lei, non me. Accetto la cosa perché è una regola, ma non mi rende felice come un matto.
Se avessi la scelta leveresti la possibilità del coaching in campo in ogni competizione?
Ti faccio questo esempio: da dopo l’Australian Open a prima del Roland Garros abbiamo fatto tanto on-court coaching. Poi a Parigi, visto che per le regole ITF non si può, non abbiamo potuto. Quando Dasha ha giocato contro Maria Sakkari lei era completamente persa. Molte emozioni fin dai primi punti. Lei mi guardava come a spronarmi a dirle qualcosa. L’ho fatto, warning. L’arbitro mi aveva sentito. A fine partita le ho detto: ‘Questo che stiamo facendo è completamente stupido. Tu sei completamente dipendente da me. Qual è il tuo vero obiettivo? Tu devi vincere i grandi tornei. Nessuno si ricorderà se sei 9, 11, 12, 6 o 4’. Forse ci ricorderemo di lei se sarà una delle Big Four. Così le ho detto che saremo andati a fare tanto lavoro prima e dopo le partite e che quando sarebbe arrivato il momento di giocare lei se la sarebbe dovuta cavare da sola. Abbiamo cancellato l’on-court coaching per qualche tempo e abbiamo visto che non stava funzionando. Ma per me non aiuta le giocatrici che cosa devono fare e come risolvere i problemi contro le avversarie. Durante la finale di Mosca pensavo che la sua avversaria, Jabeur, era lì senza il coach ma solo con suo marito. Dunque quando lei mi chiamava era una sorta di 2 contro 1. È corretto? È una domanda la mia. Possiamo fare 2 contro 1? Non penso. So che se ne sta parlando tanto e che alcune regole devono essere perfezionate a proposito dell’on-court coaching. So che Patrick Mouratoglou ha detto che dobbiamo mettere in luce il lavoro del coach eccetera. Per me non è così. Dobbiamo però sistemare la regola e trovare un’unità di giudizio tra ATP, WTA e ITF.
Come giudichi la sua stagione?
Il ranking è ottimo, ma ho la sensazione che tutte le sue debolezze che ha possano, se migliorate, portarla molto più in alto. Sono molto fiero dell’impegno che ci sta mettendo. Lei vuole giocare, vuole migliorare. Non è sempre facile, ha 21 anni e tanta pressione e non è sempre facile avere le giuste motivazioni, ma è lei a voler sempre fare i vari lavori che per me è la cosa più importante. Non ho mai avuto la sensazione che lei non fosse felice di andare in campo. Abbiamo iniziato non benissimo, ma poi il periodo da febbraio a Wimbledon è stato ottimo. È cresciuta tanto nel ranking e quando fai un salto così netto hai forse bisogno di assorbire la situazione un po’ di più perché lei stessa si diceva ‘sono 11 o 12, non posso più perdere da chi è 15 o 20’, cosa che non è assolutamente così, ma purtroppo è un’idea che le è entrata in testa. Ha cominciato a pensare al Masters perché non era così distante e blablabla. A quel punto ha cominciato a giocare le partite con la paura di perdere ed è stato difficile quel momento. Ma a tutto parte del momento: è in una fase dove deve imparare e lei merita davvero questo titolo a Mosca perché ha lavorato tanto duramente e io sono molto felice. Oltre a questo, è stato ottimo anche come abbia giocato sia a Parigi che a Wimbledon.
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