Ultimamente viene un po’ banale parlare di “si fa la storia” quando si deve presentare una finale Slam. Forse tutto è partito dalla finale dello US Open 2015 quando Roberta Vinci e Flavia Pennetta scrissero quella pagina sportiva indimenticabile con il primo derby italiano in un ultimo atto di un Major, forse all’Australian Open 2016 quando Serena Williams andava a caccia del titolo numero 22 e Angelique Kerber del primo successo personale come il primo di una tedesca dal 1999. Forse quando la situazione si ripetè pochi mesi dopo con ancora la statunitense a caccia del “22” che le avrebbe permesso di eguagliare Steffi Graf o Garbine Muguruza per il primo personale e di una spagnola da Conchita Martinez 20 anni prima. Forse ancora dopo.
Difficile quantificare veramente perché nel tennis femminile degli ultimi anni una finale Slam ha sempre avuto sfumature particolari, possibili record, prime volte, volti nuovi, personaggi di varia natura (chi pensava, un paio di anni fa, che saremmo arrivati a celebrare il trionfo di una lettone?). Ora però si è probabilmente raggiunto l’apice di questi intrecci con l’ultimo atto di un torneo, lo US Open, che non avrà vie di mezzo: o Serena Williams, o Naomi Osaka; o il record assoluto di 24 titoli Slam vinti interamente nell’Era Open (Margaret Court divise il totale tra i due momenti storici), o la prima volta assoluta per una giovanissima campionessa e per il suo paese, il Giappone (e Haiti, vista l’origine del padre).
16 anni di differenza tra le due: Serena è nata a settembre del 1981, Naomi a metà ottobre del 1997. La differenza, già di per sé considerevole, assume valori ancor più importanti se confrontata con la storia del tennis: è il quarto gap tra due finaliste Slam, in termini di età, nella storia di questo sport, appena il secondo registrato nell’Era Open dopo i 17 anni che separano Martina Navratilova da Monica Seles, affrontatesi nella finale di New York nel 1991.
Chi arriva meglio? Difficile dirlo. La ragione propende a dare Williams favorita. Per tutto il torneo ha mostrato una grande superiorità sulle avversarie, con l’unica giornata complicata avuta al quarto turno contro Kaia Kanepi che la fece tremare fino a inizio del set decisivo. Per il resto, soltanto contro Karolina Pliskova nei quarti ha ceduto più di 4 game. Il servizio continua ad avere importantissimi riscontri: sono 70 gli ace messi a segno in tutto il torneo, un numero che a Flushing Meadows non raggiungeva prima della finale dall’edizione del 2000. Se assieme a quello, che già da solo può fare la differenza contro tante, ci aggiungiamo una condizione fisica in grande miglioramento rispetto a Wimbledon scopriamo come mai come adesso viene spontaneo pensare che non vorrà farsi sfuggire questa grande chance: soltanto una volta in carriera ha perso due finali Slam consecutive, all’Australian Open 2016 e al Roland Garros pochi mesi dopo; in più c’è una sconfitta (e gli strascichi che ne sono seguiti) da cancellare contro Osaka.
Era fine marzo e il primo turno di Miami metteva di fronte la rientrante statunitense contro la giapponese, reduce dal titolo a Indian Wells. Finì con un netto 6-3 6-2 per Naomi, che evidenziò i problemi e i ritardi nel recupero della sua avversaria che dopo averle stretto la mano uscì inferocita dallo stadio e, salita su una macchina, non rientrò più saltando l’obbligatoria conferenza stampa e venendo multata.
Osaka ha avuto un percorso piuttosto simile, con l’unico set lasciato per strada nella sfida di quarto turno contro Aryna Sabalenka e per il resto, anche lei, non ha mai concesso più di 4 game per set. Il 6-0 6-0 ad Aliaksandra Sasnovich, protagonista comunque di un’ottima stagione, è forse il timbro migliore di un torneo vissuto in grandissimo spolvero e le 13 palle break annullate, su 13, nella semifinale contro Madison Keys non possono che evidenziare questa situazione che, c’è da scommetterci, sta facendo impazzire tutti i giapponesi. Già a Indian Wells, ricordiamo che se all’inizio c’erano soltanto due giornaliste del Sol Levante mentre a fine torneo i rappresentanti giapponesi (compresi i massimi dirigenti della Yonex, casa che fornisce racchette) erano arrivati ben oltre la dozzina. C’è tanto interesse di fronte a questa ragazzina che con Sasha Bajin ha intrapreso un percorso di crescita importante, in linea con quelle che erano le previsioni di chi per prima la vide all’Australian Open 2016 e chi prima ancora a Stanford, torneo del suo esordio assoluto tra le professioniste, nel 2014. Andrea Petkovic, che la superò con qualche difficoltà in quella circostanza, reagì così all’essersi trovata di fronte la giovane Osaka: “Ma quel dritto cos’era? No, davvero, avete visto che dritto?”. Si riferiva a un colpo che aveva superato i 130 chilometri orari.
Già allora la piccola Osaka stava cominciando a far parlare di sé e proprio in quel torneo ci fu il primo incontro con il suo grande idolo: Serena Williams. Le due fecero due chiacchiere di fronte a un microfono e chiusero con un selfie molto amichevole. Naomi ha speso da sempre parole di grande elogio per la sua rivale di stasera, descrivendola come il motivo per cui ha iniziato a giocare a tennis. A Miami, aveva descritto il momento in cui l’aveva sentita urlare un “come on” come uno dei momenti più gratificanti, perché si sentiva meritevole di un impegno serio da parte della persona che ha sempre visto come una sorta di divinità. Stasera lei sarà l’ultimo ostacolo verso la corsa al “24” e, se anche non crediamo possa avere di questi pensieri (ha già dimostrato in tanti momenti che ha profondo rispetto per tutte, ma ha la sua strada da percorrere), la montagna da scalare sarà ripidissima.
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