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La resurrezione di Djokovic, di nuovo campione a Wimbledon

Si potrebbe raccontare la finale. Si potrebbe, volendo, inventarsela.
Raccogliere immagini di tutte le lunghe e combattute partite di questi giorni, fare un collage e trovare momenti ed emozioni non banali tra suicidi tennistici, maratone, long set, crollo delle teste di serie, scambi lunghi, erba gialla, l’insolito caldo torrido di Londra.
Quando un torneo vede così tanti colpi di scena e lotte prima dell’ultima domenica, solitamente a pagare è la Finale. Ed è dal 2015 che a Wimbledon si paga per questo.

Lo pensano anche William e Kate, in prima fila nel Royal Box, lo pensa un ingrigito Hugh Grant che rimpiange di non avere optato per un Sunday Roast e che deve invece applaudire una partita nulla, tra uno sbadiglio di Santana e la perplessità di Borg, vicini di posto.

Si potrebbe raccontare la finale di Wimbledon, ma in realtà la finale l’abbiamo vissuta solo nell’ultima ora: lo si immaginava tutti, viste le quasi dodici ore in campo di Kevin Anderson negli ultimi giorni. Lo si immaginava perché quella semi tra Rafa e Nove era un anticipo di atto conclusivo, era da lì che sarebbe uscito il vincitore. E Novak Djokovic vince Wimbledon. Torna a vincere uno Slam dopo il Roland Garros due anni fa, dopo i dubbi, la confusione, le sconfitte, la pausa, i Guru, i litigi con la moglie, le incomprensioni, la crisi.
Torna ed è un bene per il tennis, che ritrova un altro competitor in stagione, vista la moria generale, vista la nulla incisività dei giovani, persi tra incapacità al meglio dei 5 set, discontinuità, difficoltà fisiche.

Djokovic non è quello di prima, ma è comunque tornato a competere e a lottare a livelli alti, a giocare con il suo solito muro, attraverso il transition game, ad avere la fame necessaria per spartirsi  le fette più importanti della torta stagionale.

È una storia di resurrezione quella di Djokovic, tra chi credeva che non ce l’avrebbe più fatta (forse anche lui) e chi aspettava questo giorno come inevitabile. Sono ora quattro i trofei di Wimbledon di Djokovic, tredici gli Slam, a uno da Sampras.

Anderson non è riuscito a ripetere la prestazione coraggiosa degli ultimi tre set contro Federer, né a tenere duro come contro Isner, 26-24 al quinto. Nonostante un terzo set di puro orgoglio, in cui è riuscito a concentrare gli sforzi e la concentrazione al servizio, nel quale ha approfittato del visibile calo di intensità di Djokovic, che dopo due ore, proprio come contro Nadal, ha iniziato a dare segni di cedimento ma con intelligenza ed esperienza  è riuscito a non far riaprire un match chiuso, ad annullare con coraggio i set point (4) per Anderson e salvarsi come solo i campioni sanno fare.
Perde la seconda finale Slam in meno di un anno ma si conferma tra i primi cinque giocatori del mondo, da ultra-trentenne. Il tennis non è più uno sport per giovani, Wimbledon non è più uno Slam da grandi finali.

Djokovic, però, è ancora un campione. Di quelli che attraversano la tempesta e poi sorridono, ritrovandosi in mano una coppa dorata a cui pensava di aver detto addio.

Si poteva raccontare la finale di Wimbledon, invece abbiamo avuto una partita soltanto nel terzo set, quando Anderson si è scaldato e Novak ha resistito. Non è stata certo la più veloce; per quella, nell’era Open, si deve tornare a Laver-Roche nel ’68 e i suoi 60 minuti. E allora “accontentiamoci” delle resurrezioni, che sono belle e necessarie e sono storie di sport che mai ci annoieranno.

Rossana Capobianco

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Rossana Capobianco

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