Ci eravamo lasciati a Parigi con le seguenti impressioni: “Nadal figurati se combinerà qualcosa a Wimbledon! Dopo il Roland Garros se ne va a giocare a golf”… “Federer vince Wimbledon in ciabatte”… “Serena tornerà a dire la sua”… “Nole è più bollito di una gallina da brodo”…
Inutile dire che l’ “erba” di Wimbledon (sulle virgolette torneremo alla fine) ha smentito tutto facendoci vivere un torneo alquanto sorprendente e per certi versi insolito, confermando l’unica vera teoria erbivora che vede nello slam londinese ancora oggi il solo major capace di mettere insidie sulla strada dei così detti “favoriti”.
La stagione sul verde femminile aveva rilanciato le carte di Petra Kvitova, vincitrice a Birmingham, salvo poi vedere la ceca uscire malconcia dal primo turno a Londra. Il verde di Londra ha così sorriso a una ritrovata Angelique Kerber, che mancava all’acuto fin da Sidney e che comincia sempre più a somigliare alla Stan Wawrinka del circuito femminile, con i suoi tre slam su quattro finali. E mentre la Halep dopo aver finalmente smesso di essere Miss Zeru Tituli a Parigi ha pensato bene di allungare la baldoria alzando bandiera bianca già al terzo turno, una Serena Williams in risalita ha saputo, grazie al suo servizio soprattutto, rimettere quasi tutte in riga e far capire che, per quanto “mammina”, se le gira bene la ciribiricoccola può ancora mettere in castigo tutte. Salvo una Giorgi quasi perfetta per un set e, per quanto potenzialmente letale, ancora una volta incompiuta e appunto una Kerber in versione Angenimal.
Al maschile invece si è assistito a uno Wimbledon prima scontato, poi scontatissimo, poi sorprendente e infine deludente, con una finale dove tutti aspettavano l’ennesimo Fedal per ritrovarsi con il match più orrendo dal trofeo Birra Moretti del ‘99.
Tutti aspettavano Federer dopo il digiuno post USA e sull’erba Roger è andato come scemando in una forma che sembrava “già buona” a Stoccarda e che invece si è rivelata proprio lì al suo apice. Halle aveva fatto notare le crepe, a Londra il castello è letteralmente crollato alla prima vera forma di resistenza. La vera novità nella sconfitta di Federer contro un Anderson comunque solido e mai domo poi non è stata tanto la rimonta subita quanto la vera uscita di scena della sua testa dal torneo dopo il terzo set perso contro il gigante sudafricano. Per la prima volta si è visto un re decadente, con tutti i suoi quasi 37 anni che gli pesavano nella mente, più che nelle gambe. E pensare che tutte le stelle sembravano essersi allineate per facilitargli il cammino. Cilic finalista uscente che riusciva nell’impresa, lui che veniva dalla vittoria al Queens, di perdere da due set a zero sopra contro Pella, uno che sull’erba nemmeno sa raccogliere margherite. Coric, colui che, dopo averlo battuto a Halle, sembrava essere additato a pericolo numero uno manco fosse Edberg, tornava a casa già al primo turno. Invece Anderson ha fatto vedere come il Federer di quest’anno, che forse (occorre sempre ricordarlo) ha vinto in Australia più grazie a gentili concessioni croate, sia tutt’altro che il mostro dell’anno scorso.
Tutti si chiedevano quando sarebbe uscito Nadal. Ma un tabellone-scampagnata che aveva messo tutti ma proprio tutti i possibili grandi battitori nella parte alta ha fatto la felicità del toro di Manacor, il quale già faceva le prove di morso sul terzo trofeo dorato. Peccato che un ritrovato Djokovic si sia messo di mezzo, proprio lui sul quale ormai nessuno puntava più. Il serbo però, dopo la figuraccia a Parigi contro il nostro Cecchinato, ha saputo prima crescere dando serio filo da torcere al Queens a Cilic e poi stupire proprio contro il numero uno: Come? Resistendo alle difficoltà, sfruttando gli errori e le pause di un Nadal sempre forte ma pur sempre lontano parente del Nadal 2008-2011 e colpendolo quando serve, al contrario degli altri. In confronto a un Del Potro infatti, Djokovic non ha pensato di avere vinto trovandosi in vantaggio, e ha attaccato un Nadal che al contrario di quello degli anni d’oro, si rifugiava molto di più lontano dalla riga di fondo pensando più che altro a ributtare di là e mostrando un fianco che il serbo ha saputo azzannare.
Una menzione d’onore va all’altro gigante, quello americano, uscito sconfitto da una maratona che sembrava diventare, a ogni game che passava, sempre più simile a quella storica Isner-Mahut del 2010. L’unica nota positiva per il tennis americano dell’uscita di Long John è che almeno Roddick potrà continuare a dormire in pace. Se l’americano fosse riuscito a vincere il torneo, il povero Andy come minimo avrebbe tentato qualche gesto inconsulto.
La menzione di disonore invece va ai soliti Zverev e Kyrgios, semplicemente e ormai abitudinariamente inconcludenti.
Infine, ora che ci lasciamo alle spalle anche quest’anno la stagione su erba, occorre riflettere sulle virgolette postate a inizio articolo. Possiamo davvero ancora chiamarla “erba”? Vero, veniamo da anni di “terba”, con una superficie defraudata dalle sue caratteristiche negli anni andati. Ma quest’anno francamente si è toccato il fondo. L’averla tagliata più bassa ha sì velocizzato la superficie nel primo turno e mezzo di torneo ma ha fatto sparire il verde già dalla prima metà della prima settimana, complice anche il caldo sahariano. Il risultato è stato l’arrivo alla seconda settimana con campi di vera e propria sabbia battuta. Che nella parte alta siano arrivati in semifinale due grandi servitori non deve trarre in inganno; il fatto che in quella parte di tabellone veleggiavano praticamente tutti lo rende quasi ovvio. Così come non devono coprire gli occhi di prosciutto le bellissime partite tra Nadal e Palito e lo spagnolo e Nole. Spettacoli meravigliosi, di un tennis che però con l’ERBA non ha nulla a che fare. Quindi quella che ci lasciamo alle spalle è ormai, almeno per chi scrive, una stagione certo emozionante, ma per certi versi “mancata”, e un torneo slam in particolare che pretende di ostentare ancora una tradizione che stona sempre più con la realtà circostante. Pare infatti alquanto controverso, per non dire ridicolo, che un major che rivendica ogni anno la sua Storia con la S maiuscola non presenti più niente di quella unicità di gioco che aveva una volta. Per non parlare del fatto che dopo essersi piegato con tutte le sue omologazioni e spostamenti al mero business (se l’avanzare Wimbledon di una settimana nel calendario ha sì allungato la stagione su erba ha di fatto spostato il torneo verso i giorni più caldi dell’anno) faccia chiudere i battenti alle 11 di sera perché “zia Harriet” deve dormire…
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