Perdere rende più umani, dicono. Ed è l’ultima cosa che uno vorrebbe sentirsi dire. Nello sport, nel tennis, l’umanità porta con sé un forte sentore di sconfitta, e sono quelli i momenti in cui Roger Federer preferirebbe essere un venusiano, o anche meglio, un vulcaniano con le orecchie a punta e la logica priva di ogni emozione, come mister Spock. Ma ha perso, e lo ha fatto nel modo più atipico che si possa fare, ha perso dopo aver quasi vinto, autentica celebrazione dei peggiori capitoli della sua biografia onusta di aggettivi superlativi e di record imbattibili. Nel meglio, e nel peggio. È la ventesima volta, in carriera, che il Più Grande imbocca l’uscita dopo aver fallito un match point, e forse è un record anche questo. Dite, vi sembra umano gettare al vento partite già vinte? Occorre essere grandi anche per commettere simili sciocchezze, e Federer, ieri, è stato a suo modo grandissimo.

Va tutto per aria, per lui, e per gli altri. Per lo sciocchino la vittoria numero 99, i Championships numero 9, lo Slam numero 21. Per gli altri, gli uomini del torneo, salta la finale sognata, quella con Nadal, commemorazione del loro ultimo match su quest’erba, dieci anni fa; e come se non bastasse, vi è la certezza di una semifinale senza protagonisti di primo piano, da cui verrà una finale a sua volta disarmonica, con un favorito sicuro e un altro a far da sparring. Però, è vero, il tennis ama talvolta cambiare sceneggiatura, e normalmente quando lo fa succede tutto all’improvviso. Può indurre un Kevin Anderson a recitare nei panni del Leicester dello scudetto, e trasformarlo in pochi minuti da sicuro perdente a implacabile, incisivo, scrupoloso, pignolo, meticoloso cecchino. Capita. Anzi, è capitato ieri, e Federer non ha impiegato molto a capire che non sarebbe stata la sua giornata.

«Non è stato il match point fallito a mandarmi in confusione. Su quello ho tentato un passante di rovescio affatto facile, ed è finito in rete. È stato peggio nel quarto set, quando ho avuto tre altre chance per andare al tiebreak togliendogli il servizio, e le ho sprecate malamente. Lì mi sono come irretito, e ho fatto fatica a rimettermi in carreggiata», la confessione di un Roger non così demoralizzato come era logico attendersi. Il nuovo contratto con lo sponsor giapponese, voglia o no la sua famiglia («Saranno i miei figli a decidere quando devo smettere», aveva detto in più d’una occasione), gli ha allungato ancora la carriera. Dovrà arrivare almeno ai Giochi di Tokyo, 2020. Dunque avrà ancora due Wimbledon per tentare di rifarsi.

Dovrà rivedere alcune cose nella sua programmazione, però. I prossimi trentasette anni (l’8 di agosto) non incidono più che tanto nel fisico, ma certo si fanno sentire lassù, nella testa, fra i pensieri. Nella cosiddetta “tenuta mentale”. Lì il logorio si accumula rapido, e non ci sono formule magiche o allenamenti per sciogliere i grumi di fatica, i dubbi, le incertezze.

Se vi va di analizzare queste ultime due stagioni federeriane, inarrestabile quella del 2017, più stenta questa ancora in corso, seppure nutrita di una nuova vittoria in Australia, non è difficile annotare che il nostro non regga più di due tornei nell’arco di un mese. A tre non arriva, li soffre, e sbrodola tennis come ha fatto ieri.

Alla fine dell’anno scorso giocò e vinse a Shanghai e Basilea, giunse decotto al Masters di Londra e si fece mettere alla porta da Goffin. Quest’anno ha voluto inserire Rotterdam prima di Indian Wells e Miami, per il gusto (comprensibile, eccome) di riprendersi il numero uno: ha vinto in Olanda, ha fatto finale a Indian Wells ed è crollato in primo turno a Miami. Lo stesso è successo sull’erba, un anno fa perse subito a Stoccarda, poi vinse Halle e Wimbledon. Quest’anno ha vinto Stoccarda, ha agganciato una finale ad Halle, per farsi battere da Coric, e si è schiantato nei quarti a Wimbledon… Insomma, serve un’altra programmazione per i due anni a venire: due tornei e stop, uno per andare in forma, uno per tentare la vittoria. E se gli sponsor ne vogliono tre, decida in cuor suo quale sia meglio tralasciare.

«Anderson ha giocato molto bene al servizio», dice Federer, ripensando al suo match buttato, «e con quello ti obbliga sempre sul chi vive, ma non mi ha sorpreso vederlo giocare bene da fondo campo. Ci ho giocato altre volte, e quella caratteristica lui l’ha sempre avuta. È stato bravo e ci ha creduto fino in fondo». Lui no, lui si è confuso. È la parola che ripete più spesso in conferenza stampa. Del resto, è così umano confondersi… A mister Spock, davvero non sarebbe successo.

Daniele Azzolini

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