Alla fine, quello che ci mancherà di più, sarà solo un pizzico di normalità. Noi che corriamo, ed esageriamo, placandoci solo nella più brutale delle esagerazioni, che è quella di abituarsi a tutto, scopriremo che la normalità è divenuta talmente desueta da desiderarla come la più attraente delle novità. Anche nello sport. Anche nel tennis, che è fonte generosa di singolari anomalie.
La normalità esce di scena con Roberta Vinci, trentacinquenne campionessa di un tennis che non c’è più. Voleva chiudere da tempo, ma ha atteso gli Internazionali per farlo, per l’ultimo saluto alla città che l’ha accolta bambina, prima di restituirla a uno sport che non ha paesi natali, e nemmeno case cui far ritorno, ma frulla di continuo la vita dei suoi protagonisti alterandone le fondamenta e riducendo a frappè persino le virtù native. Da oggi, il tennis sarà diverso da com’era prima, perché non ci sarà più quella ragazza dura dentro e morbida nei gesti e nei sorrisi, che spiegava in ogni suo incontro che cos’era il tennis e – bastava voltare gli occhi e inquadrare l’avversaria di turno – che cos’è diventato.
Una vita da ossimoro, l’avventura tennistica di Roberta. Un gioco di parole, già dal cognome. Vinci, e lei a precisare… «Come se fosse facile». L’unica in grado di rispondere alla filiera di domande più insidiose del tennis moderno: si può essere così normali, nel tennis di oggi? E più in generale, se tutte esagerano in qualche qualità, chi nei centimetri, chi nell’aggressività, chi nella forza bruta, chi nella corsa, non finiscono per essere loro nella norma rivestendo di eccezionalità tutte coloro – in realtà lei soltanto, la Roberta… – che si affidano a doti meno iperboliche? E dunque, in che cosa consiste l’eccezionalità di una tennista normale?
A chiederglielo si ottiene la risposta più singolare che si possa immaginare. «So giocare a tennis». Una finezza, quest’ultima, che va colta nella sua essenza migliore. Possibile che in siffatto sport vi siano ragazze, anche più forti di Roberta, che a tennis non sappiano giocare? Sì, è possibile. Vi sono ragazze che colpiscono di racchetta con tale forza e precisione che possono fare a meno di chiedersi quale sia la trama del gioco che stanno attuando, quale le risorse dell’avversaria, quali gli angoli per creare le situazioni più favorevoli, e anche, semplicemente, quale sia il colpo migliore.
Campionessa di tattica, la Roby. Una voce trascurabile nel dizionario del tennis di oggi, sia pure declinato al femminile. Schiacciare, uccidere, massacrare, killer istinct, i termini in voga. Pensare, creare, punti deboli, geometrie, tattica, le parole dimenticate. Eppure, pensando e disegnando geometrie, Roberta ha costruito una carriera che altre, con i loro modi da inesauste belligeranti non sono andate vicine nemmeno a immaginare. Prima in doppio, settima in singolare, venticinque trofei di coppia (18 finali) e dieci in solitaria (5 finali), un Career Grand Slam conquistato con Sara Errani che da noi mai nessuno si era sognato, frutto di cinque successi Slam, e tra questi tutti e quattro i Major: Roland Garros e Us Open (con gli Internazionali) nel 2012, Australian Open nel 2013, ancora Australia e Wimbledon nel 2014.
E una sconfitta da ricordare, la più bella e d’azzurro vestita che si sia mai vista nel tennis. Agli Us Open 2015, in una italianissima finale con Flavia Pennetta, inno all’amicizia che unisce anche quando si è avversarie, dopo un successo in semifinale contro una Serena Williams ormai a un passo dal Grande Slam.
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