E alla fine, successe un Sessantotto. Il mondo si finse preparato, il tennis prese per buone le indicazioni dei suoi padroni senza esserne troppo convinto, e la ridente cittadina di Bournemouth, con la sua bella rotonda sul mare, si convinse che non sarebbe stato certo il tennis a scalfirla, se non vi erano riuscite le pagine scritte dai suoi mirabolanti letterati. I tre poli della vicenda, all’apparenza distanti, stavano per dare forma a una delle più profonde rivoluzioni che lo sport abbia mai vissuto, capace di imprimere al tennis, nobile e immobile, una trasformazione che fu prima concettuale, poi organizzativa e regolamentare, e alla fine persino sociale.
In un mondo che scandiva i battiti di molti cuori solitari sulle note della banda del sergente Pepper, e mischiava nel cosiddetto “spirito dei tempi” la volontà di cambiamento dei ragazzi insieme con la protesta politica contro l’intervento americano in Vietnam, il tennis avvertì l’urgenza di affrontare il nodo storico che da trent’anni lo rendeva uno sport incompleto, azzoppato dall’impossibilità di mettere a confronto i migliori. Il 1967 fu l’anno nel quale venne gettato il seme della riunificazione fra dilettanti e professionisti. Il 1968, l’anno della nascita del tennis open, aperto agli uni e agli altri. E la ridente Bournemouth, che i letterati avevano trasformato nella capitale mondiale dell’horror fantascientifico, si trovò a fare da teatro al primo evento del nuovo corso. Era il 22 aprile. Cinquant’anni fa.
Al centro della trama, non dissimile dalle invenzioni di Mary Shelley (Frankenstein), di James Herbert (The Fog) e di Roald Dahl (Le streghe), non lontana dalla fantasia di JRR Tolkien, né meno inquietante dell’immagine riflessa del Gray di Oscar Wilde, tutti letterati nati o vissuti a Bournemouth, vi era uno scambio di personalità. I grandi tradizionalisti del tennis inglese, i padroni di Wimbledon, erano divenuti i rivoluzionari, spinti da considerazioni economiche facili da intuire, e avevano lasciato a combattere una battaglia persa nel nome degli “ideali” che per primi avevano sostenuto, un candido signore italiano, ex giocatore di valore, a suo tempo ritenuto un innovatore.
Giorgio De Stefani, presidente ITF e finalista al Roland Garros 1932, era negli anni giovanili “il tennista senza rovescio”, colpiva infatti solo con il dritto, passandosi la racchetta da una mano all’altra. Uomo aduso anche al porgere l’altra guancia, dato il carattere mite. Una volta, il numero uno italiano Huberto de Morpurgo, barone dal carattere fumantino, gli si era avvicinato baldanzoso al termine di un incontro, e invece di porgergli la mano gli aveva mollato un ceffone. «Caro De Stefani, stia al suo posto e non si permetta più di battermi», lo aveva ammonito.
Una pasta d’uomo, il De Stefani, a lungo incerto se i signori di Wimbledon stessero giocando una partita a rimpiattino o avessero davvero cancellato i sacri valori dello sport dilettantistico, l’unica corazza contro il perfido dilagare di un tennis senza distinzioni di classe o di ceto. De Stefani aveva le idee chiare: «Il professionismo spingerebbe a giocare a tennis persino i borghesi». Eccoli, infatti, i borghesi “promoter”, schierati sulle sponde americane a sventolare i dollari e attrarre i campioni per i loro tour senza capo né coda, nei quali Laver sfidava cinquanta volte di seguito Rosewall su campi approntati ovunque, persino al centro delle sale da ballo.
Era dal 1927, con la prima tournée di Suzanne Lenglen negli Stati Uniti, organizzata da Charles Pyle, che i promoter “corrompevano” i campioni strappandoli al tennis puro dei dilettanti, ma dopo la seconda guerra mondiale le cose si erano complicate. C’era concorrenza spietata fra i promoter, Jack Kramer da una parte, George McCall con la sua National Tennis League dall’altra, l’emergente George Dixon che più tardi si accordò con il miliardario texano Lamar Hunt per dare vita al WCT, e le sirene americane risuonavano sempre più squillanti nelle orecchie dei tennisti, al punto che pur di trattenere quei pochi dilettanti di valore, alcune federazioni avevano accettato la pratica del “sottobanco” o dei lavori fasulli (con stipendi altrettanto fasulli) in cambio della promessa di rifiutare il professionismo.
Insomma, il tennis agli albori della Grande Riforma si presentava come un colabrodo, e fu quella considerazione a mutare la strategia dei signori di Wimbledon… Se dobbiamo pagare in nero per avere qualche discreto giocatore, meglio aprire ai professionisti e avere i migliori.
Di questo in effetti si trattava. I migliori erano ormai professionisti ma a loro non era permesso giocare i tornei del Grand Slam, mentre per chiunque vincesse un Major vi era in premio una domanda senza risposta… Avrebbe vinto lo stesso se tutti avessero partecipato?
Una serie di riunioni condotte a colpi di mortaio preparò la decisione finale, che giunse a dicembre 1967. Vinse Wimbledon, ovviamente. E perse De Stefani, nonostante la sua convinzione (ma era il solo) che i dilettanti fossero più forti. Il 1968 nacque sotto l’egida Open, ma nel più frenetico guazzabuglio organizzativo fra chi non se la sentiva, chi non aveva capito e chi “non ci voleva stare”. Pazienza, era la svolta, e non si poteva più tornare indietro. I tornei Open furono solo dodici, il calendario accolse molti appuntamenti dilettantistici e numerosi tornei riservati ai professionisti. Il torneo incaricato di aprire il nuovo corso fu Monte-Carlo, ma gli organizzatori fecero finta di non capire (vinse Pietrangeli). Così, l’incarico passò a Bournemouth, che ebbe finalmente il suo ingresso nella storia, senza il corredo di scienziati pazzi, mostri disumani e nebbie assassine che i suoi letterati le avevano donato.
Ai British Hard Court Championships, sulla terra rossa del West Hants Lawn Tennis Club di Bournemouth, in quell’aprile di 50 anni fa parteciparono otto professionisti del tennis. Il primo match “open” vide di fronte il dilettante scozzese John Clifton, 22 anni, e il professionista australiano Owen Davidson. Il primo punto fu di Clifton, la vittoria finale (62 63 46 86) di Davidson.
Vi fu, però, anche la vittoria di un dilettante su un professionista, l’unica: la ottenne il britannico Mark Cox contro il trentanovenne Pancho Gonzalez, che condusse finché le energie non lo piantarono in asso: 06 62 46 63 63. In finale, Laver e Rosewall, con la vittoria di quest’ultimo per 36 62 60 63 (e 2400 dollari guadagnati), stessa finale del Roland Garros che vide un nuovo successo di Rosewall (63 61 26 62). Poi Beckenham (Stolle), Queen’s (Graebner), Wimbledon (Laver), Dublino (Okker), Gstaad (Drysdale), Amburgo (Newcombe), Toronto (Khrisnan), Us Open (Ashe), Los Angeles (Laver), Buenos Aires (Emerson). Dodici appuntamenti in tutto, in una stagione folle che vide anche 126 tornei per soli dilettanti e 19 appuntamenti riservati ai pro. Dal 1969 tutti i grandi tornei, compresi Monte-Carlo e Roma divennero Open. Il primo italiano a vincere un torneo Open fu Adriano Panatta nel 1971 a Senigallia.
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