Interviste

Krunic: “Vinci è straordinaria. Ho pianto per lei e Pennetta nella finale dello US Open”

Parli spesso di questo tuo particolare: essere una grande perfezionista. Ma da dove nasce questa caratteristica?
“Dall’infanzia, da come i miei genitori mi hanno educata. Sia a me che mia sorella ci hanno sempre detto di puntare al top. Forse è anche per una questione di cultura: in Russia il successo viene visto come un fattore normale, mentre il fallimento è qualcosa su cui ci si concentra sempre molto di più. Il sistema russo in cui sono cresciuta ha avuto una forte influenza su di me: si può sempre fare meglio, dunque anche per i miei genitori devono averci spronato a fare sempre meglio fin da subito”.

Dici che la tua carriera è cambiata da quando hai capito di non poter sempre pensare di essere al top, ma al tempo stesso che quella sensazione sarà sempre parte di te e lo mostri quando in campo ti innervosisci. È difficile abbandonare questa sensazione?
“Molto, ancora adesso sono convinta che sia una parte di me che non posso del tutto abbandonare. Puoi provare a metterlo da parte quando ti accorgi che non ti può aiutare, ma in generale può servirti ad avere motivazioni, ad essere un giocatore migliore. Non puoi però usare questo per fissarti un obiettivo, per voler raggiungere la perfezione. La perfezione non esiste, e noi siamo sempre lì a cercare di raggiungerla. Non è un cambiamento facile per me, sto ancora faticando. Chiunque fa fatica ad abbandonare delle abitudini che vedeva ormai fisse”.

C’era una frase che hai pronunciato allo US Open 2014 che mi è rimasta impressa per lungo tempo. Dicevi che grazie a quei risultati e agli ottavi di finale raggiunti avevi imparato ad amare un po’ di più te stessa. Poi cosa è successo che hai comunque vissuto un periodo piuttosto negativo?
“Ho avvertito una pressione enorme. Tutti si aspettavano molto di più da me. In quella edizione dello US Open ero convinta che tutti i pezzi del mio puzzle si fossero uniti, che ogni cosa era andata al suo posto al momento giusto. Dopo però sono venuti fuori altri problemi: non ero affatto costante negli allenamenti, nella preparazione fisica, mi lasciavo andare molto di più… Ora invece posso dire di avere molta più costanza sia nel lavoro che nei risultati. Mi diverto molto di più, ho capto che questo per certi versi è perlopiù un lavoro e per avere successo ho bisogno soprattutto di ripetere certe cose giorno dopo giorno dopo giorno fino a renderla una routine. Chiaro poi che non sempre puoi avere una gran voglia di allenarti, ma a chi non capita di avere giornate o momenti negativi? Persino a te, penso, possono essere capitati quei giorni dove non vorrai parlare alla gente. In quei momenti devi fare quello che non vuoi, che il tuo corpo rifiuta di fare, perché solo grazie a quello potrai poi divertirti e apprezzare quanto stai facendo. È questa la filosofia che ora sto adottando”.

Questo cambio di mentalità è più un fattore tuo, che sei riuscita a costruirti, o ha avuto influenza il tuo coach?
“Lei ha tanti meriti, anche perché Elise (Tamaela, ndr) mi conosce da circa 10 anni. Mi ha anche battuto un paio di volte, quando ancora giocava. Io ero più forte, ma lei mi mandava ai matti. Non è una che parla tanto, ma ha sempre cercato di mandarmi in una giusta direzione. Noi abbiamo le nostre conversazioni: ho molta fiducia in lei perché so che mi comprende perfettamente e prova le stesse sensazioni che provo io. Lei ha tanti meriti, la ritengo la migliore, al 100%. Non sono sicura che ce l’avrei fatta da sola, lei è stata di grande importanza. Ogni tanto si arrabbia, e ha ragione: in campo capita che perdo la testa e magari esagero nelle reazioni verso di lei. Sono veramente stronza (sic) da questo punto di vista, e non lo faccio apposta, ma lei lo sa e per fortuna non la prende male. Sa quali sono i miei limiti e lavora per cercare di migliorarmi”.

Lo scorso anno dopo Parigi avresti voluto chiudere la stagione e fare due conti su come stava andando la tua avventura da professionista. Ora ti ritrovi numero 1 di Serbia con il ritiro di Ana Ivanovic e il crollo di Jelena Jankovic.
“È bello essere numero 1 al mondo del proprio paese, ma non ci metto troppa considerazione perché chi era davanti prima di me è arrivata al numero 1, ha vinto Slam. Per essere tra i migliori in Serbia dovrei vincere due Slam ed essere numero 1 del mondo per un bel po’ di tempo. Ana e Jelena hanno alzato l’asticella in maniera importante e per questo non mi interessa granché essere numero 1 ora, è meglio sapere che in ogni settimana sento che sto migliorando ed il ranking viene di conseguenza”.
Ana e Jelena comunque devono aver voluto dire tanto per te, soprattutto Jelena che hai sempre ritenuto un vero idolo. Cosa ti piaceva più di loro?
“Quando ero più giovane, soprattutto con JJ (Jelena Jankovic, lei la chiama così) parlavamo spesso di come aggiustare il mio gioco. Mi insegnava diversi trucchi, mi allenavo con loro e vedevo l’intensità che era molto più alta della mia. Per fortuna questo succedeva spesso, soprattutto con JJ. È soprattutto grazie a lei che ho alzato anche io l’intensità del mio gioco, grazie a lei prima non avevo una goccia di sudore, ora non c’è parte del mio completo che rimane asciutta. Questa era la prima indicazione che mi faceva capire: io non sono come loro. Tempo fa non sarei mai corsa su ogni palla in allenamento, quelle più difficili le avrei lasciate, non mi sarei impegnata così. Per loro invece era normale, un’attitudine mentale chiara. Questo capitava spesso con JJ: anche lei magari non aveva voglia, aveva altro per la testa, però era sempre a mettere il 100%”.

Tempo fa raccontavi ad un sito serbo (B92) che i tuoi connazionali erano chiusi di mentalità e tendevano troppo spesso a giudicare le persone senza davvero conoscerle, negli anni questa idea è cambiata?
“Guarda, dico la verità: mi riferivo più a un fattore dei media. Non so se sia solo una questione nostra o anche di altri paesi, ma da noi c’è l’impressione che tu non sia mai bravo abbastanza. E sei sempre dietro a giudicare, a scrivere brutte cose, a insultare alle volte. Ricordi quando Djokovic ebbe quell’anno straordinario in cui per i primi 6 mesi non riusciva a perdere? Ci fu quella sconfitta (contro Federer, a Parigi, nda) e tutti a dire: “Ma come?”. Oddio, ma davvero? mi ripetevo io. Cioè, è stato straordinario che abbia completato quella serie di vittorie, eppure per tanti lui era tornato un incapace. Così come nello sport, tante persone si sentono autorizzate a giudicare cose e persone di cui non conoscono assolutamente nulla. Forse c’è un po’ di colpa anche da parte di giocatori, dell’intero gruppo di addetti ai lavori se le persone, nel nostro caso, vedono solo quello che appare in campo e non sanno tutto quello che c’è dietro. Mi piacerebbe che alle volte ci si andasse tutti un po’ più delicatamente. Ogni volta invece c’è chi giudica, chi si sente autorizzato a insultare, ma per fortuna mi sono accorta che ci sono anche persone che ti stanno veramente vicino, nel mio caso dopo brutte sconfitte. Io adoro la Serbia, mi piace trascorrere lì il mio tempo e sono fiera dei miei connazionali, poi ovvio che abbiamo le nostre questioni. Non lo so, forse qualcuno pensa di poter essere diretto e noi, come popolo, siamo molto diretti e diciamo le cose come stanno, forse questo alla lunga può diventare problematico”.

So che hai particolare stima di Roberta Vinci. Qualche anno fa hai giocato diverse volte contro di lei, puoi raccontare un momento particolare dentro o fuori dal campo ora che Roberta ha annunciato il ritiro?
“Non c’è mai stato un momento particolare tra di noi, ma a me è sempre piaciuto di lei come fosse una persona veramente alla mano e mi piacciono i giocatori che non vogliono farsi riconoscere solo per lo sport che praticano ma che escono da questi rigidi schemi e ridono, scherzano… Da questo punto di vista con Roberta ho avuto anche momenti carini in campo, lei è solita applaudire l’avversaria, farle i complimenti per un punto ben giocato… La sensazione che ho sempre avuto di lei è che sia una persona straordinaria. Vorrei che fossimo pieni di giocatrici come lei. Questo sport è duro, molto duro alle volte. Sento dire che siamo combattenti, che siamo forti, che dobbiamo combattere, ma dopo la partita tutto dovrebbe svanire: siamo lontani da casa, sentiamo la mancanza dei nostri cari, alle volte tutto ciò ci sfinisce, ci sentiamo soli… e questa sensazione in Roberta non l’ho mai notata, sia che fosse top-10 o meno, sia che giocasse finali o meno. È così, adoro quelle persone che rimangono se stesse nonostante tutto. E per sempre mi rimarrà in mente la finale dello US Open 2015. Quelle due mi hanno fatto piangere dalla gioia, era un grandissimo momento per il tennis italiano, ma anche di amicizia. Non si vede spesso, ma quell’attimo di puro fair play, di pura emozione… So che Roberta era felice per Flavia nonostante lei avesse perso, per me quello è il motivo per cui facciamo sport: nonostante tutti i problemi, siamo in grado di regalare momenti così belli. Complimenti a lei, quello non era affatto facile”.

Pensi ancora di cominciare, in futuro, a studiare criminologia?
“Alla grande, sì. Mi è rimasta impressa da quando ho finito economia. Ora non posso perché i ritmi non me lo permettono, però mi tengo in allenamento leggendo dei libri, l’ultimo dei quali è “Illusions”. È qualcosa più incentrato sulla psicologia, però psicologia, criminologia… Sono tutte cose che mi interessano tantissimo. Lo stesso libro, Illusions, parla di psicologia e per me è interessantissimo il campo del cervello umano, il più grande mistero per me e capire come mai io faccio certe cose in una certa maniera mentre altre persone potrebbero farle diversamente. Dopo la carriera da tennista sicuramente proverò a intraprendere questa strada di studi”.

Diego Barbiani

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