Gioia e dolore ancora una volta uniti nella stessa scena, nello stesso campo da tennis. È lo sport e va accettato: le finali di qualsiasi torneo (figuriamoci di uno Slam) racchiudono un mix di emozioni elevate al massimo grado. Si può essere come Simona Halep, splendida protagonista per 6 partite, salvando match point a ripetizione e mostrando qualità di leader, o si può essere come Caroline Wozniacki che domina quasi tutte le avversarie (Jana Fett a parte, ma in una giornata molto difficile dal punto di vista climatico) e arriva all’appuntamento con la storia fresca e carica a 1000. Una delle due si sarebbe finalmente liberata di una scimmia malefica che le stava sulle spalle a infastidirla da lungo tempo, l’altra avrebbe ancora dovuto masticare amaro, arrabbiandosi, piangendo e chiedersi come mai, ancora una volta, la passerella e le luci della ribalita erano toccati a qualcun altro. C’era troppo in ballo perché ne nascesse una bella partita. Ci siamo riusciti per metà, poi è stata tutta una grande lotta di nervi con il vantaggio, per la danese, che l’avversaria era alla frutta fin dai primi game del parziale decisivo.
Vedere Halep percorrere quei 5-10 passi per arrivare al microfono, nella cerimonia di premiazione, è stata umanamente tra le cose più tristi di queste due settimane di torneo. In quei secondi chiunque potrebbe essersi impersonificato in lei, ripercorrendo uno a uno tutti i momenti negativi degli ultimi anni. Inutile ricordarli, è un’operazione che già abbiamo fatto centinaia di volte, ma lei lo avrà fatto. Parigi le ha sempre sbattuto le porte in faccia, prima per un soffio e poi perché si è fatta trafiggere da 54 fendenti di Jelena Ostapenko. In tutte le circostanze è arrivata al terzo, in due di queste (contro Ostapenko e Wozniacki) aveva un break di vantaggio a metà parziale. Oggi, analizzando bene il terzo set, si vedeva che non aveva più energie: le lunghe fatiche dei giorni scorsi oggi si sono fatte sentire e rispetto a una danese ben più fresca pagava nettamente dazio.
Al di là di questo, però, bravissima la danese che ne ha avuto di più e alla fine ha portato la coppa a casa, prendendo idealmente a schiaffi chiunque fino a ora l’aveva sempre etichettata come numero 1 più scarsa, o immeritevole, perché le mancava l’acuto nel grande torneo. A Pechino, nel 2010, la prima domanda che le fecero fu proprio: “Ma sei sicura di meritartelo?”. E andò avanti così per tutte le 67 settimane che rimase al vertice, con tutti gli addetti ai lavori a chiederle: “Perché non vinci uno Slam? – Quando sarà il tuo turno?”. All’Australian Open di due anni dopo scivolò da prima a quarta, superata da Victoria Azarenka, Maria Sharapova e Petra Kvitova. Con il passare del tempo sembrava molto improbabile un rientro così in alto, mentre negli Slam rimaneva sempre l’annoso problema del resistere per due settimane al gioco più offensivo (e più adatto ai grandi tornei) delle avversarie. Quando Angelique Kerber ha vinto qui in Australia due anni fa abbiamo subito pensato a lei: “C’è riuscita una giocatrice che ha passato gran parte della carriera a esaltarsi in fase difensiva, perché non può una Wozniacki?”. La risposta era semplice: Kerber non era più una giocatrice solamente difensiva, tutt’altro. Già nel 2015 aveva aumentato la sua pericolosità e modificato il suo gioco, Wozniacki invece le sue migliori qualità le aveva fatte vedere solo per 6 mesi, nella fine del 2014. A fine 2016 rischiava addirittura l’uscita dalla top-100, perdendo al primo turno dello US Open. Sventato quel pericolo, anche per lei c’è stato un passo in avanti enorme. La “WallZniacki” che tutti conoscevano si era evoluta, e qui a Melbourne è arrivata con la maturità giusta per approfittare di un tabellone tutto sommato agevole, ma in cui comunque doveva confermare i gradi di super favorita fin dal primo turno.
Oggi, mentre lei era a terra, stesa sulla Rod Laver Arena, in lacrime di gioia, dall’altra parte la sua rivale piangeva per il sentimento diametralmente opposto. Le due ragazze si sono trovate di fronte nel momento migliore per entrambe, ma solo una delle due avrebbe esaurito il sogno di una vita. Halep ci proverà, e giocando come ha fatto in questo Australian Open di chance potrebbe averne, ma va per i 27 anni e quella margherita non avrà petali a non finire.
Come sarebbe andata se in finale ci fosse stata Angelique Kerber? La sensazione è che la tedesca avrebbe fatto due su due down-under dopo il titolo del 2016. Aveva veramente molto più tennis della danese, soprattutto nei momenti delicati: una sembrava fare fatica a incidere, l’altra aggrediva alla ricerca del vincente. La testa della tedesca è stata un gradino sopra a tante, riacquistando la consapevolezza di essere forte, forse ancor di più del 2016. Wim Fissette deve essere un mago, o semplicemente ha toccato le corde giuste per rianimare una che era andata in grande crisi dopo i tanti exploit. Molto interessante anche l’exploit di Elise Mertens, perché è in linea con tutti i progressi fatti dalla belga negli ultimi 12 mesi. Due titoli a Hobart, una terza finale, tre semifinali prima di Melbourne e un atteggiamento molto proiettato in avanti: volevamo pronosticarla top-20 a fine anno, lunedì sarà già numero 20. La sensazione è che ancora non sia un prospetto da piani alti/altissimi del ranking, eppure questa giocatrice del nord-est del Belgio ci sta stupendo settimana dopo settimana.
Non dimenticheremo questo Australian Open molto facilmente. Qui si è fatta conoscere Marta Kostyuk, la giovane classe 2002 che ha catalizzato tutte le attenzioni dei primi giorni per la sua cavalcata partita dalle qualificazioni. Appena 15 anni, un amore per il tennis che sta nascendo ora, eppure delle qualità che sono già emerse contro avversarie nettamente più forti. Da adesso a fine stagione potrà fare solo 10 tornei, ma da numero 245 del mondo ci sarà la chance di prendere parte a tornei di alto livello tra gli ITF anche senza il jolly del provenire da un’annata junior di altissimo livello e, chissà, ricevere qualche wild-card a livello WTA con l’obiettivo magari di entrare nelle qualificazioni dei prossimi Slam con le proprie forze.
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