Saremmo sinceramente molto tentati dal pubblicare il riassunto degli Australian Open del 2017… Colpa di colui che ha fermato il tempo, colpa di colui che non ne vuol sapere di smettere di stupire il mondo. Quindi mettiamo da parte il vocabolario nel tentativo di trovare nuovi aggettivi per Roger Federer e proviamo a vedere cosa ci ha lasciato questo primo slam stagionale.
Partendo dalle femminucce, la finale di un torneo fatto ancora una volta di grandi battaglie ma di poca novità a livello tecnico-tattico (non ce ne voglia nessuno ma da vari anni seguire i match di tennis femminile corrisponde spesso a una versione urlata del Video-Pong) metteva di fronte due regine incompiute, delle quali finalmente una non sarebbe stata più ritenuta una perdente. Alla fine l’ha spuntata, non senza un batti e ribatti di ciapanò e rotoloni di carta igienica sparsi qua e là per il campo nel tentativo di ambedue di perdere il match, la Wozniacki, che finalmente è riuscita a scrollarsi di dosso la nomea “safiniana” di numero 1 senza slam. Per la Halep toccherà ancora aspettare. A niente è servita la benedizione di papà Federer; la prossima volta chiederà direttamente a Papa Francesco. Senza contare quante volte fosse già stata miracolata fino alla finale, dopo le maratone con Davis e Kerber.
Per il resto dicevamo di un torneo fatto sì di grandi partite, grande tensione, incertezza, sorprese e passione, come il femminile non nega mai negli ultimi grandi appuntamenti, con le solite altalene e saliscendi in classifica che di volta in volta scaraventano precedenti vincitrici o leader nei meandri delle basse teste di serie e portano in alto le outsider del momento. Si è ritagliata una bella fetta di notorietà la Hsieh che dopo aver fatto fuori i resti della Muguruza e la solita “Zvereviana” Radwanska ha fatto vedere le streghe anche alla ex campionessa in carica Kerber. Bocciatura totale per gli USA al femminile con la Stephens vincitrice degli ultimi US Open fuori al primo turno, così come Venus (con la sola Madison Keys a tentare di salvare la baracca) e per la ex numero uno Pliskova, altra abbonata al club “Numero 1 per caso”. Insomma in finale arrivavano la numero 1 e 2 del mondo, come era giusto che fosse, e la vittoria della danese ne decretava anche il ritorno in testa alla classifica. Congratulazioni.
E i maschietti? Anche quest’anno il torneo, nonostante un caldo e un’umidità da sauna africana, si è rivelato uno spettacolo tecnico e ricco di sorprese, con un tennis votato all’attacco e alla ricerca del vincente, cosa che negli altri slam comincia ad andare purtroppo sempre più persa. Se il torneo era cominciato con un tabellone che sembrava un’autostrada per Nadal e un percorso a ostacoli per Federer, alla fine però si rivelava una trappola per il primo e quasi una passeggiata di salute per il secondo. Infatti, se nella parte alta le teste di serie continuavano comunque la loro opera masochistica di eliminazione, nel lato del tabellone di Roger si andava, con tutto il rispetto per i nominati, a creare un quarto di finale dove il vincitore sarebbe uscito dalla combinazione Chung-Sandgren; roba mai vista nemmeno al 250 di Casablanca e della quale i federeriani per una volta non si saranno lamentati. Il tutto mentre nella parte alta un certo Marin Cilic spazzava via via in modo sempre più netto i suoi avversari, fino ad arrivare a incrociare Nadal nei quarti dopo che questi aveva ben disposto delle varie comparse di turno. A completare l’opera tipo “Ai confini della realtà” arrivava anche non solo il Marin 2.0 versione US Open 2014 (o poco ci mancava) che metteva alle corde il maiorchino, ma persino l’infortunio muscolare dello spagnolo, che alzava bandiera bianca tra lo stupore generale. Unica nota stonata le dichiarazioni post partita di Rafa, che si scagliava contro il poco rispetto (secondo lui) dell’ATP verso i giocatori, poco tutelati e troppo “infortunati”. Amico mio, se a 31 anni e mezzo il tuo tennis è fatto di corsa, recuperi e risposte dalla scritta Melbourne alla fine il rischio dell’infortunio è sempre dietro l’angolo…
Accanto a tutto ciò, con Murray operato all’anca e ai box fino a Wimbledon, facevano la loro ricomparsa Wawrinka (più per verificare se sia in grado di reggersi ancora in piedi, specie la pancetta nalbandiana messa su a Natale) e Nole, o meglio quel che resta delle sue rovine. Questo Novak è lontano anni luce dal miglior Djokovic e il ricordo che lascia è il suo sguardo stranito di fronte alla sua stessa medicina assaggiata contro il neo robottino Chung.
Arriviamo così ai giovincelli: Zverev, prevedibile come la diarrea dopo i peperoni piccanti, è riuscito a non arrivare ancora una volta alla seconda settimana, sebbene l’uscita contro il neo fenomeno Chung, visto il cammino del coreano, sia passata quasi in secondo piano. Quest’ultimo, grande atletismo, buona mano sotto rete e grande personalità (al limite della strafottenza) ci ha dato un assaggio forse di quello che potrebbe essere il futuro del tennis – sempre che trovi un modo per curarsi di volta in volta i piedoni… Il neo maestro Dimitrov, dopo aver regolato nel match forse più bello del torneo Kyrgios, ha spento l’interruttore contro Edmund, autore invece di un torneo fantastico, dimostrando la propria crescita.
Alla della fiera fine l’ha spuntata, come tutti sappiamo, il vecchietto, quello a cui dieci anni fa molti consigliavano di smettere. 8 slam fa, appunto… A essere un minimo obiettivi si potrebbe notare il cammino tutto sommato agevole avuto fino alla finale dal buon Ruggero, se si toglie un Berdych rinato che però ha giocato più o meno mezz’ora per poi ricordarsi che negli ultimi 847 slam non ha più vinto un set contro lo svizzero. Arrivare a una finale con appena più di 10 ore di tennis sulle gambe ha il sapore della battuta, così come il non trovare nessun Top10 sulla tua strada fin lì e vedere il tuo avversario in semifinale non capire nulla della partita e alzare il fazzoletto in segno di resa a fine secondo set dopo circa 14 minuti di gioco effettivo (non avevamo una mazza da fare e abbiamo perso tempo a cronometrarlo…).
Ma come per Nadal agli scorsi US Open, il fatto che gli avversari al confronto di un (quasi) 37enne sembrino ancora degli scolaretti e che i tabelloni appaiano delle semplici formalità non fa che rendere più mostruoso quanto fatto da lui, come da Nadal del resto, fino ad ora in questa loro seconda, terza o ennesima giovinezza. Un grandissimo, coriaceo Cilic ci ha provato a negargli il suo ventesimo slam, in dei momenti pareva persino che gli entrasse tutto e che il match andasse dalla sua parte. Poi però ti ritrovi in un “bau” a perdere 6/1 il quinto contro uno che dovrebbe sentire la fatica quando il match si allunga. Quello che qui un anno fa ha vinto quarti, semifinale e finale proprio in 5 set… Magari Marin si chiederà ancora adesso “perché”… Quasi tutti se lo chiedono da… Boh… 8 anni? Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole. E più non dimandare.
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