Una nazione che ha scritto la storia di questa competizione, gli USA, ma che mancava al successo da 17 anni. Il tabù è stato spezzato e il merito è soprattutto di CoCo Vandeweghe, criticata per i suoi atteggiamenti esuberati, molto accesi, ma che anche grazie a questo carattere nella miglior stagione della carriera si è eretta ad ancora di salvezza della squadra di Kathy Rinaldi. 6 punti su 6 tra semifinale e finale, più i 2 del primo turno fanno 8 su 8. Ci voleva quel genere di personalità per non farsi prendere dalla paura o dalla tensione di un’atmosfera caldissima come era dentro l’arena di Minsk, che da settimane aveva fatto registrare il tutto esaurito, e di non scivolare in una sconfitta che sarebbe stata quantomai beffarda e clamorosa ma che con una seconda singolarista come Sloane Stephens, in quel momento completamente fuori forma, poteva diventare realtà alla minima sbavatura contro una squadra molto giovane e altrettanto affamata. Non doveva sbagliare, non ha sbagliato una virgola. Alla fine, svestiti i panni della tennista, eccola tornare più umana e sorridente.
Difficile trovare qualche segno che potesse prevedere che ha realizzato Caroline Garcia nella fase finale della stagione. La prima parte del 2017 era molto buia, tra infortuni e vicende fuori campo piuttosto complicate. La ripartenza a Parigi, coi primi quarti di finale Slam in carriera, aveva alzato l’asticella ma non aveva concretamente portato a risultati eccezionali. Dopo lo US Open invece è stato tutto straordinario: battendo tra le altre Dominika Cibulkova, Ekaterina Makarova, Angelique Kerber, Petra Kvitova, Simona Halep ed Elina Svitolina ha incamerato i titoli di Wuhan e Pechino, 2000 punti in tre settimane (l’equivalente di uno Slam) comprendendo anche i 100 dei quarti di finale a Tokyo. In quel periodo ha spiccato il volo, lei che è tipica nell’esultare come Vincenzo Montella (ma che ha giurato di non sapere chi fosse) e che ha concluso la stagione sfiorando la finale al Master. Comincerà il 2018 senza cambiali pesanti da scartare, il che rende ancora il tutto più interessante nel capire lo sviluppo che la sua carriera potrà avere.
Che dobbiamo fare, “Schiavo”? Dici che ti ritiri, annunci che è l’ultima stagione, poi a lungo andare ti accorgi che ancora non ne vuoi sapere, che ti diverti troppo, che una vittoria è il fine massimo di ogni tuo momento su un campo da tennis, qualunque esso sia basta che abbia delle linee e una rete nella zona centrale. Vai a giocare a Bogotà, non proprio il centro della geografia tennistica, da numero 163 del mondo e per farti sentire ancor più lontana dai palcoscenici più importanti da Roma comunicano che no, quest anno non ti vogliono perché sei vecchia e se proprio ti interesserà potrai giocare le pre-quali, torneo di dubbia utilità e che rovina soltanto la preparazione a molti. Eppure proprio da qui parte la tua voglia di rivalsa, vinci il titolo e acciuffi un posto al Roland Garros senza dover rischiare brutte notizie con la tribolata vicenda delle wild-card di questa stagione. Vinci l’ottavo titolo in carriera e registri un video dove neanche provi a nascondere l’enorme felicità, vinci l’ottavo titolo e ti getti schiena a terra sporcando il tuo completo di rosso, braccia al cielo, proprio come quando vincesti Parigi nel 2010. Eppure era Bogotà e contro non c’era Samantha Stosur ma Lara Arruabarrena. Eppure quel giorno, in quel momento, Bogotà era diventato il tuo Slam.
New York, 9 settembre 2017. Due ragazze, migliori amiche, cresciute assieme, giocano la finale dello US Open. Al termine, un abbraccio bellissimo seguito da chiacchiere e risate a bordo campo sedute l’una vicina all’altra nell’attesa della premiazione. Non ricorda qualcosa?
L’unica differenza, a parte il risultato e i nomi delle protagoniste, erano le lacrime di Madison Keys, la più giovane, che nel match più importante della sua carriera fin qui è stata vittima di tensione e problemi fisici alla coscia dopo una stagione già resa complicata a causa di un doppio intervento al polso. Al di là di questo, però, tra Stephens e Keys è stata una partita colma di valore tra due ragazze che venivano da mesi estremamente difficili (Sloane ha ripreso a camminare a fine aprile dopo 11 mesi di stop) e il loro “derby” veniva 60 anni dopo il primo successo di Althea Gibson, prima afroamericana ad imporsi in uno Slam.
Sono passati ormai più di 8 anni dalla prima finale Slam di Caroline Wozniacki, più di 7 da quando è diventata numero 1 del mondo, più di 6 da quando vinse l’ultimo torneo importante (Indian Wells 2011), più di 5 da quando fu per l’ultima volta in top-3 nel ranking. A Singapore la danese si è presa alcune rivincite importanti, ottenendo il titolo più importante della carriera e tornando numero 3 del mondo, il tutto dopo una stagione fatta di 8 finali, di cui le prime 6 tutte perse. Sembrava una maledizione, invece una volta arrivata a Singapore ha dominato tutte le avversarie incontrate fatta eccezione di Caroline Garcia, contro cui comunque ha vinto il primo set per 6-0 ed è stata 5-3 nel secondo. In ogni caso, erano le condizioni migliori per lei: superficie lenta come la colla, scambi allungati, le attaccanti che vedono neutralizzarsi ogni trama, il fisico che diventa ancor più importante. 6-0 a Svitolina, 6-0 a Halep, 6-0 a Garcia, poi due partite più combattute ma senza perdere set contro Karolina Pliskova e Venus Williams. A neppure 28 anni ci sarebbe ancora tutto il tempo per ottenere qualcosa di importante, Singapore potrebbe essere il punto di partenza.
Fin dalla notizia della riduzione da 2 anni a 15 mesi di squalifica, sui social è nato un continuo tran-tran di immagini, parole e video. Un conto alla rovescia vissuto giorno per giorno e sia che tu fossi dalla parte della russa o meno eri partecipe di questa situazione, questo sentimento che cresceva sempre più mano a mano ch si riducevano le cifre. Maria la rockstar, veniva da pensare: non era più una semplice partita, quella che l’attendeva all’uscita del tunnel il giorno in cui avrebbe potuto ricominciare a giocare. Era un vero tuffo tra le braccia di chi non ha smesso un secondo di starle vicino e ogni momento di ogni giorno era speso per taggarla in qualche post e qualche frase di supporto. È anche da qui che è nata l’idea della ex numero 1 del mondo di rendere il 26 aprile un giorno indimenticabile per queste persone e tramite Twitter lei (o il suo agente) ha contattato uno per uno le persone che più si erano manifestate vicine a lei nel momento più difficile: “Ciao, ho notato i tuoi messaggi e per ringraziarti del sostegno voglio offrirti un biglietto per la mia partita del 26 aprile. Saluti, Maria”. Questo era il modello di messaggio che alcuni ragazzi e ragazze si sono ritrovati nella loro casella di messaggi diretti. A chi è potuto presentarsi, subito dopo la partita, lo stesso agente ha detto di farsi trovare vicino ad una porta dove li avrebbe accolti: per loro c’era il grande regalo di ritrovarsi di fronte alla russa che di persona li ha ringraziati uno a uno, chiacchierato per una decina di minuti, fatto alcune foto e registrato dei video
Per finire, sono diventati ospiti della stessa russa durante la prima conferenza stampa del rientro, in un angolo della sala stampa e con la bandiera russa tra le mani. Si può essere contro, si può essere a favore del suo rientro, ma non si può non dire che quella sera Maria sia stata fenomenale con quei ragazzi che conserveranno ogni secondo vissuto.
Vogliamo cambiare tema e non riprendere ancora quando avvenuto a Parigi. La storia è nota, i numeri del successo anche. È stato impressionante tuto quello che è venuto dopo, a Wimbledon. Soprattutto se confrontato con quello raccolto da Garbine Muguruza nel 2016, che dopo la vittoria in Francia ha vinto un solo match fino ad agosto e ha stentato fino a fine stagione. La lettone invece ha raccolto una quasi vittoria contro Johanna Konta a Eastbourne, dove avrebbe avuto strada spianata verso la semifinale avesse concretizzato il 4-2 di vantaggio al terzo, e poi ha compiuto una seconda importante scalata Slam a Wimbledon, dove si è fermata solo di fronte a Venus Williams nei quarti di finale. Il tutto dopo aver passato step piuttosto intricati: una sfida di primo turno contro Aliaksandra Sasnovich che si doveva giocare, poi a causa dei match maschili che andavano per le lunghe è sembrato essere sospeso, salvo rimanere in dubbio fino alle 7:30 di sera. Spedita sul campo 18 con appena un’ora e mezza di luce. Ha chiuso 6-3 al terzo quando ormai il sole era già calato, alle 9:15 di sera, con un urlo che fu ben più rumoroso di quello fatto in finale a Parigi (purtroppo non abbiamo ritrovato il video, ma questa gif da l’idea del momento) con tutta la rabbia che aveva per la pessima organizzazione di un torneo che di falle ne ha avute (chiedete a Novak Djokovic) e che persino quando superò Camila Giorgi al terzo turno, invocando un trattamento migliore, si ritrovò declassata dal campo 3 al 12.
Eppure, al di là di tutto, i quarti raggiunti sono stati un risultato eccezionale: era dal 2006 che una neo-vincitrice Slam non si spingeva così avanti. Persino Victoria Azarenka fece peggio, con gli ottavi al Roland Garros 2012 dopo la vittoria in Australia. E stiamo pur sempre parlando di una neo-ventenne, fatto non comune nel tennis di oggi dove a causa delle limitazioni sull’età non possono più esistere casi come Sharapova, Hingis, Seles o altre campionesse esplose molto presto. E dire, infine, che quel secondo set contro Venus l’aveva persino quasi girato quando si trovò a due punti dal vincerlo…
L’ha inseguito, l’ha desiderato, l’ha voluto a tutti i costi. La rincorsa di Simona Halep al numero 1 è qualcosa tra le più tribolate che si sia visto in stagione. Delusioni, sconfitte pesanti, giornate no. C’è stato un po’ tutto da inizio giugno a fine agosto. Eppure, alla fine, è stata lei la quinta regina di un’annata caotica ai vertici come poche. Eppure, anche semplicemente guardando questa foto, si capisce perfettamente quanto questo traguardo fosse importante per lei: il numero 1 stretto con così tanta forza e il volto di chi, almeno per un attimo, ha toccato con mano il paradiso.
Alzi la mano chi l’avrebbe pensato: Serena e Venus Williams, ancora loro, sempre loro. 8 anni dopo l’ultima finale in famiglia, a Wimbledon, ancora loro due l’una contro l’altra in un atto finale di un Major. La combinazione si è resa possibile lì dove il tempo, in questo 2017, si è fermato: a Melbourne, teatro di due partite decisive dal sapore abbastanza vintage. Un Sister Act prima, un Fedal poi. Peccato che sia mancata una vera partita: lo spirito agonistico non riusciva proprio a trasparire nella stessa maniera di altre occasioni a causa dei mille legami che si possono creare tra due sorelle, pur se sono riconosciute come le sorelle più vincenti di sempre. Tra l’altro, è durata molto più l’attesa in sala stampa tra la conferenza di Venus e quella di Serena piuttosto che la partita stessa. Al momento dell’annuncio di Serena, quando ormai l’orologio a Melbourne si avvicinava alla mezzanotte, è partita una standing ovation per tutta la sala. Qualcuno urlava, altri vedevano la fine della loro giornata ormai vicina. Però era pur sempre la sera in cui superava Steffi Graf e saliva a 23 Slam diventando la più vincente dell’Era Open, vuoi non lasciare il tempo di festeggiare?
Non servono parole e chi vuole è autorizzato a commuoversi.
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