Cinque titoli su sei finali, due vittorie nei Master 1000. Tutto questo in una stagione, a soli 20 anni. L’impatto che Alexander Zverev ha avuto nel 2017 a livello ATP è stato di buono, buonissimo livello, mantenendo fede alle belle parole spese su di lui da qualche anno. Il ragazzo è giovane, è forte, ha margini di miglioramento e sta riprendendo percorsi di crescita che non si vedevano da, pare, una decina d’anni. La fine della stagione in top-4 è un premio, oltre che un vero riconoscimento, e nessuno tra gli addetti ai lavori (ma veramente nessuno, a quanto sembra) riesce a vederlo in un futuro diverso dal diventare numero 1 e vincitore di Slam. Eppure in questo smielato accanimento per mettere sul piedistallo chi campione deve ancora diventare, ci sono situazioni che fanno storcere il naso.
Anzitutto, dipende da come si vogliono analizzare le prime fasi delle carriere di vari tennisti divenuti poi campioni assoluti o rimasti “soltanto” (virgolette d’obbligo) grandi giocatori. Marat Safin nel 2000 prendeva a pallate Pete Sampras in finale allo US Open, David Nalbandian a 20 anni era in finale a Wimbledon (sempre agli inizi del 2000), Rafael Nadal vinceva il primo Slam a 19 anni, Juan Martin del Potro a 20 anni infilava 4 tornei vinti consecutivamente e 23 vittorie di fila da inizio luglio a inizio settembre quando cedette ai quarti dello US Open contro Andy Murray, Nick Kyrgios a 19 superava Rafael Nadal sul Centre Court di Wimbledon e replicava qualche mese dopo con i quarti di finale all’Australian Open, Tomas Berdych a 19 anni batteva Roger Federer alle Olimpiadi, a 20 vinceva un 1000 battendo in finale il numero 3 del mondo recuperando da 2 set a 0 e si imponeva contro Rafael Nadal nella sua Madrid zittendo il pubblico. Volendo, l’elenco potrebbe tranquillamente continuare, perché un altro che ha enormi rimpianti è Kei Nishikori, sempre tradito da un fisico fragilissimo. Zverev, invece, ha concluso la stagione a 20 anni senza ancora aver ottenuto un risultato di grande livello.
Nel tennis di oggi gli Slam sono il vero ago della bilancia: per quanto possa far piacere, Nadal non verrà ricordato perché ha vinto plurime volte il titolo del Foro Italico, così come pochi penseranno a Nalbandian come tra i più talentuosi campioni mancati del nuovo millennio. Soltanto a Wimbledon di quest anno ha raggiunto il quarto turno, perdendo in 5 set da Milos Raonic. Quel giorno in sala stampa sfogò il suo nervosismo: “Tutti mi dicono che queste sconfitte mi servono da lezione, ma io sono stanco di imparare”. Così come sarebbe dovuto servire quella voleè sbagliata contro Nadal, ad Indian Wells 2016, o la partita buttata contro lo stesso spagnolo all’Australian Open di quest anno. Analizzando queste sconfitte, qualche domanda in più si solleva automaticamente: nonostante un tremebondo gioco di volo, a Melbourne sbagliata qualche comoda voleè ha preso letteralmente paura e non si è più fatto vedere in avanti, inoltrandosi in lunghi scambi che facevano soltanto il gioco dell’avversario (in difficoltà costante, ma che alla lunga ha vinto anche per i crampi del rivale, 11 anni più giovane); al Roland Garros veniva dagli ottimi risultati di maggio e fresco della vittoria a Roma, ma al primo turno un buon Verdasco si rivelò già troppo più forte; a Wimbledon cedette al quinto contro lo stesso canadese che ha buttato gran parte della stagione a causa dei problemi fisici; allo US Open il peccato più grave, con la sconfitta al secondo turno contro Borna Coric; infine, il primo Master in carriera, finito già al Round Robin e risultando vincente solo contro Marin Cilic, quando questo ha avvertito la solita tensione nel momento in cui si avvicinava la linea del traguardo.
A conti fatti, Zverev ha dato tutto quello che aveva in 3 dei primi 5 mesi del 2017, con un colpo di coda a inizio agosto. Gli avversari più forti si facevano da parte a causa di problemi fisici di varia natura e lui (come tutti) ne approfittava scalando il ranking. Questo gli ha permesso allo US Open di partire come testa di serie numero 4, oltretutto inserito nella metà di tabellone lasciata vuota da Andy Murray. Niente Murray, niente Djokovic, niente Wawrinka, niente Nishikori, niente Raonic. Uno Slam monco, una metà di tabellone senza veri rivali verso la finale: l’occasione era irripetibile, visto anche quanto raccolto nelle prime settimane dell’estate in Nord America. Da numero 4 del seeding avrebbe avuto un’autostrada davanti: Darian King (contro cui ha vinto in 3 set tirati), Coric (contro cui ha perso nonostante un 2017 così diverso tra i 2), Kevin Anderson, Paolo Lorenzi, Sam Querrey, Pablo Carreno Busta. Un ATP 250 di medio livello. Si può ancora tirare in ballo l’alibi dei 20 anni, ma già cominciamo a stemperare qualche tono trionfalistico. E non esaltiamoci troppo nel vederlo battere il peggior Djokovic da anni a questa parte, o un Federer con la schiena bloccata. I successi di Roma e Montreal sono buoni, ottimi risultati, ma non stabiliscono ancora che giocatore abbiamo di fronte. Anzitutto: è così diverso dagli ultimi possibili campioni che non hanno poi ottenuto i risultati sperati?
Zverev in giornate in cui tutto gira bene può risultare molto difficile da battere. Ha grinta, ha talento, ha quella sfacciataggine che serve per essere lassù. Però ha dei limiti: un gioco di volo pessimo (aggravato dalla sua altezza), un’idea di gioco generale ancora non chiara. Non è un talento puro ed esplosivo come Safin, o Federer, o anche Nalbandian (per non dire poi Kyrgios), perché non sembra avere nelle corde un tennis che possa fare affidamento su scambi da 1-2 colpi o in cui arriva la giocata vincente che coglie di sorpresa chiunque. Non può neppure paragonarsi a Djokovic, al momento, per non scomodare Nadal. Il serbo ha sempre avuto una posizione in campo più avanzata del tedesco, che ha il vizio a farsi diversi passi dietro la linea di fondo campo (ed i migliori risultati in stagione sono arrivati sulla terra, o su un cemento lento) forse affidandosi troppo allo scatto e alle lunghe falcate quando si tratta di coprire il campo, ma esponendosi gioco forza a scambi più logoranti per la sua statura fisica. Oltretutto Novak ha dovuto fare un miracolo fisico e mentale per diventare il cannibale che si è visto tra il 2011 e 2015: è stato lui a spezzare il duopolio Federer-Nadal, riuscendo poi ad installarsi stabilmente al top e collezionare titoli e record, fino ai 4 Slam vinti consecutivamente. Un mostro di tenuta, un mostro di bravura. Ha tirato il fisico a livelli impossibili da prevedere, ha cambiato regime alimentare, ha dato il 150% di se stesso nell’obiettivo di diventare uno dei più forti giocatori della storia.
Zverev questo non dovrà farlo, perché davanti a lui non c’è nessun avversario credibile. I numeri 1 e 2 del mondo, oggi, sono gli stessi che c’erano 11 anni fa. Con 11 anni in più sulle spalle, però, è impossibile pensare che la stagione vissuta da Federer e Nadal possa ripetersi o anche solo paragonarsi a quelle degli anni d’oro. Il dritto di Nadal viaggia la metà ed è meno perforante, Federer è sempre a rischio non appena gioca quel torneo di troppo (anche alle Finals era ben lontano dalla forma migliore). Però hanno più di 5000 punti di vantaggio sugli altri. Il primo dei normali è proprio il tedesco, rispettivamente 16 e 11 anni più giovane. Sono saltate, nel mezzo, due generazioni intere. La prima perché soffocata dallo strapotere dell’elvetico e dello spagnolo, poi di Djokovic e Murray, la seconda per generale inadeguatezza. Dopo questo buco c’è la sua, quella dei cosiddetti NextGen pronti a spaccare il mondo, un modo lasciato però senza un vero padrone. Se il tennis del domani vedrà i vari Grigor Dimitrov e Dominic Thiem (a proposito, con le Finals sono 23 tornei consecutivi sul cemento senza semifinali, striscia cominciata dopo Metz 2016), sarà un po’ come tagliare il Tonno Rio Mare. Ma che valore diamo a tutto ciò?
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