La parola del Direttore

Borg-McEnroe, il film sui tennisti che ci mostrarono la strada

McEnroe era un pazzo, che credeva di essere John McEnroe. Borg al contrario sapeva che per essere davvero Bjorn Borg poteva recitare solo nei suoi panni. E ne fu presto annoiato.

Se mai i poli opposti di uno sport finirono per essere così distanti, attraendosi al punto da ritrovarsi presto amici, provate a considerare l’insolita natura del tennis di quegli anni, che fra molte e variopinte sfaccettature finì per offrire un palcoscenico sperimentale alla recita quotidiana di molti e superbi attori, anch’essi portatori sanissimi di novità e in grado tutti assieme di rendere comprensibili le esasperazioni tecniche e personali dei due che, fra tutti, furono gli autentici innovatori.

Era il tennis degli anni Settanta, intriso di quell’ansia di cambiamento che veniva da vari strati della società e dalle masse giovanili in particolare. Un tennis da poco professionalizzato (fu del 1968 la dizione Open, aperto a tutti) che cercava le sue strade e affrontava il nuovo senza rinunciare ai gesti antichi, affiancando ai colpi morbidi le prime esagerazioni del top spin, alla strategia la corsa, all’educazione la rissa. Ma era un modo di azzuffarsi che, con gli occhi di oggi, si rischia di rammentarlo persino gioioso.

Borg venne prima e altre antitesi si trovò ad affrontare, in attesa dell’avvento del suo esatto contrario, un tennista che sembrava tagliato per fare tutto in termini esattamente opposti ai suoi. Fu un riformatore, lo svedese, e lo fu per altri versi anche McEnroe. Uno cambiò il gioco. L’altro lo rese teatro.

La racchetta pesante come un tortore – impossibile da utilizzare per i tennisti odierni –, Borg imprimeva al gioco rotazioni allora fuori da qualsiasi schema. Lo faceva colpendo la palla nella parte superiore, da maestro del top spin. La sfera subiva un’accelerazione in avanti e un innalzamento della traiettoria, al contempo anticipava la ricaduta. Si disse, a ragione, che Borg aveva allargato il campo da tennis. Una sua pallata sulla riga obbligava l’avversario a retrocedere di quattro metri buoni per recuperarla. McEnroe inseguiva ben altri estri, ma tutti proiettati in avanti, verso una rapida soluzione dello scambio.

Tocchettava, smistava, accelerava d’improvviso e piombava a rete per volleare con naturale eccentricità, tenendo la racchetta fra le dita come un cucchiaino da the.
Borg diventò il capofila di una generazione sbagliata. Al grido di “vince chi sbaglia meno” il suo tennis gonfiò insieme l’orda degli imitatori e il settore dei tennisti di cui si poteva fare a meno. Presero da lui gli aspetti più difensivi, senza tentare di capire perché mai, un simile e così poderoso palleggiatore, riuscisse con facilità a domare la superficie più infida, l’erba dei Championships (lì Bjorn vinse cinque volte di seguito), che si diceva nata per i soli attaccanti. Al lato opposto della tecnica, McEnroe fu invece inimitabile. Chi si azzardò ne porta ancora le conseguenze alla schiena e ai legamenti del polso.

Quando i due vennero a contatto, ben prima che le finali di Wimbledon avvampassero, McEnroe fu subito in grado di battere Borg. Si era nel 1978 a Stoccolma, Bjorn aveva vinto già due volte Wimbledon e tre il Roland Garros, insieme con altri 33 tornei; Mac aveva 19 anni e si era fatto conoscere nel 1977 scalando i Championships fino alle semifinali, dove si era arreso a Connors scoprendo che poteva esistere, sul campo, uno più antipatico di lui.
A dirla tutta, nel percorso compiuto per “sentirsi sempre più McEnroe”, John titillò assai di rado le corde dell’antipatia. Poteva riuscire grossolano, strafottente, e dire le cose più impensabili, mai però con quella punta di astio che muove dalle profondità più sulfuree dell’animo. Era il bimbo che è in tutti noi, ma più di noi capace di pessime sortite quando Ego e Realtà prendevano strade diverse.

Fu bandito dal Queen’s, il Club della Regina, perché in pochi secondi dette una spiegazione orribile all’anziana signora che chiedeva accesso al campo, sui mille modi per utilizzare una racchetta. Era la moglie del presidente del club, e dama di corte. Ne scaturì un terremoto sui media. Poi venne cancellato dall’elenco dei soci dell’All England Club, il club dei Championships (e riammesso, ma solo più avanti) per aver sentenziato che certo Wimbledon era importante, «ma se fosse stato in Tanzania» lui si sarebbe trovato decisamente meglio.

Inutile qui elencare le marachelle, le sfide agli arbitri, le urla con cui McEnroe condì il suo tennis. Più che il Grande Cattivo, o il Grande Antipatico, John fu il Grande Attore del tennis. Gli errori, i momenti di sbandamento, erano sottolineati da espressioni di disgusto verso se stesso, quasi fosse lui l’unico responsabile dei punti ottenuti dall’avversario. Mac sapeva come pretendere rispetto, soprattutto dagli arbitri. Di più, sapeva come influenzarli. Ed era bravissimo a sfruttare a proprio vantaggio le sue stesse sfuriate, rientrando in partita più carico di quando l’aveva lasciata.

Borg era distante, solido, concentrato. Ma anche lui in maschera. Dietro la corazza che indossava ogni mattina scorreva sangue caldo. Spesso bollente. Panatta, suo grande amico, lo dipinge come un «matto calmo», e racconta delle infinite volte che lo riportò a braccia in albergo, tramortito da qualche epica bevuta. «Sapevo che la mattina successiva si sarebbe presentato sul campo incapace persino di sudare. Era una macchina».
Le due finali a Wimbledon del 1980-81 furono al centro di una disputa finita nel mito. Borg vinse il primo confronto (e il suo quinto Championship) ma non riuscì a impedire a McEnroe di realizzare, anche nella sconfitta, l’impresa della giornata, vincendo al 34° punto il tie break del quarto set, forse il più avvincente mai giocato. Due forme distanti di tennis che si saldarono in un insieme di straordinaria purezza. Borg si vide cancellare, uno a uno, 5 match point. Ma vinse al quinto, perché, disse, «ero ancora convinto di essere il più forte».

L’anno dopo quella convinzione non c’era più, e McEnroe si prese tutto. Borg finì battuto anche nella successiva finale degli Us Open e capì che non avrebbe più potuto governare il tennis come avrebbe voluto. La nuova stella era diventata più lucente e attraente della sua. Giocò ancora una stagione, litigando con i padroni del circuito. Accettò anche di passare dalle qualificazioni. Si ritirò nel 1983, e aveva appena 26 anni. Ci riprovò sei anni dopo, e si era ormai perso.

Si sposò con Loredana Bertè, e fu un disastro. Ora è un signore dai capelli lunghi e bianchi che sembra aver colto uno dei segreti della vita: starsene tranquillo.
McEnroe, alla fine, l’attore l’ha fatto davvero. Non come professione piena, ma come divertimento. A lungo è stato un venditore d’arte e la sua galleria privata, a New York, aveva una lista d’inviti infinita.

Per un anno condusse “The Chair”, un quiz televisivo sulla Abc. Ora commenta il tennis in tivvù. Ma davanti alla cinepresa vi finì per vie naturali. Due volte nei film di Adam Sandler, poi in altre pellicole di minor successo, come Freak Show di quest’anno. Fu il modello dichiarato di Milos Forman per il suo “Amadeus” e nel 2008 protagonista di un episodio di Csi New York. Interpretava un folle omicida. “Sembra proprio vero”, fu la recensione di quasi tutti i critici.

Daniele Azzolini

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Daniele Azzolini
Tags: Borg-McEnroe

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