Prima Jelena Ostapenko, classe 1997, poi Garbine Muguruza, 1993. Ora una tra Sloane Stephens, coetanea della spagnola, o Madison Keys, nata nel 1995. Tre campionesse Slam consecutive con 24 anni o meno, non capitava dal 2005 quando si imposero Serena Williams (Australian Open), Justine Henin (Roland Garros) e Kim Cljisters (US Open). Lo US Open si prepara a vivere una giornata che consacrerà uno dei due talenti più grandi degli ultimi anni, che hanno attraversato strade complicate prima di trovare in queste settimane una prima (importante) fiammata.
Sarà una giornata di festa, visto che sia Stephens che Keys si sono dette talmente amiche che per loro tutto ciò è soprattutto un onore e un sogno incredibile. “Una di quelle giornate per cui cominci a giocare a tennis, che sogni da bambina” diceva, infatti, Keys. L’importante forse, dal punto di vista dello spettacolo, sarà soprattutto sperare che queste situazioni emotive non entrino nei meccanismi delle due e influiscano nella qualità dell’incontro. Abbiamo bene in mente cosa rappresentò la finale del 2015 tra Flavia Pennetta e Roberta Vinci: una data storica per il tennis italiano, un trionfo (quasi) di coppia, ma a livello di partita non fu qualcosa da tramandare ai posteri. Comunque, Stephens e Keys rappresentano il miglior modo per omaggiare la memoria di Althea Gibson, prima campionessa afroamericana nella storia del tennis. Era il 1957 e la giocatrice nata nella contea di Claredon, in North Carolina, dopo essersi messa in bacheca un Roland Garros ed un torneo di Wimbledon si aggiudicava anche il primo US Open battendo 6-3 6-2 Louise Brough Clapp.
Keys, nata a Rock Island ma residente a Boca Raton, pochi minuti fuori da Miami, viene considerata un fenomeno di potenza sin dall’età junior. I suoi colpi sanno far male da qualsiasi posizione, Serena Williams (pur non esprimendosi con la cattiveria agonistica di sempre) perse un set contro di lei, allora quattordicenne, nel World Team Tennis del 2009. Fu la prima volta che negli USA cominciò a circolare il suo nome. Quell’affermazione, prima ancora dei suoi successi nel circuito ITF, la accompagnò fino all’ingresso nel circuito maggiore dove il primo vero squillo di grande spessore fu la semifinale all’Australian Open 2015, quando eliminò lungo il cammino Venus Williams per perdere proprio da Serena. Dallo US Open di quell’anno sono cominciati i problemi al polso sinistro, peggiorati con il passare dei mesi e che l’hanno portata a vivere momenti di enorme sofferenza, dove diceva di voler finire una partita solo per poter scappare nello spogliatoio e piangere dal dolore. Pur nascondendo fino all’ultimo il problema, dopo le WTA Finals di Singapore dello scorso anno cominciarono a circolare le prime foto che la ritraevano col tutore, in occasione tra l’altro di una bella iniziativa come la partecipazione in una scuola media della California ad una giornata per promuovere la lotta contro il bullismo nelle scuole americane. Il primo intervento chirurgico, il rientro non riuscito, il secondo intervento chirurgico, la completa rinascita. 12 vittorie su 13 partite dopo Wimbledon, quando ancora la sua classifica Race la vedeva ben fuori dalla centesima posizione. Oggi è risalita fino alla tredicesima. Diventerebbe numero 9 sia qui che nel ranking normale con un successo in finale.
Stephens è nata a Plantation e ha la residenza a Coral Springs, qualcosa come 20 miglia di distanza da Boca Raton. Due ragazze cresciute insieme, che vivono a pochi passi l’una dall’altra. Sembra di fare un tuffo nel passato e rivivere l’esperienza del 2015, solo che stavolta sono gli USA a festeggiare. Sloane, figlia di sportivi, cresciuta senza conoscere il padre fin quando questo nel 2006 la chiamò dalla Louisiana per dirle che aveva un male incurabile alle ossa. La tennista Stephens, nel frattempo, cresceva e trovava sempre più consensi. È il sole nascente più completo che il tennis statunitense ha da offrire in quella generazione: offensiva ma molto rapida negli spostamenti, fondamentali per costruire una fase più difensiva e poter allungare gli scambi. Questa situazione, però, non si rispecchierà nei risultati: ci vollero 80 tornei prima di trovare la prima finale da quella dell’ITF di Reggio Emilia. Fu a settembre 2015, nel WTA International di Washington. Arrivato il primo titolo, se ne succedettero altri 3, tutti nei primi mesi del 2016. In estate, l’infortunio al piede poi operato ad inizio 2017, e la costrinse a 11 mesi di stop. Rientrò a Wimbledon, a inizio luglio, ma ci volle un mese prima di tornare a vincere una partita. Incredibile mese di agosto che l’ha portata in classifica fino alla soglia delle prime 20 del mondo. Diventerà 15 con un successo e numero 11 nella Race.
L’unico precedente tra le due risale a Miami 2015, quando Stephens si impose 6-4 6-2. Il risultato, per quanto datato e privo di grande risalto ora che parliamo di una finale Slam dopo questi lunghi periodi di degenza, può anche dare una piccola chiave di lettura: Keys, come dicevamo, è abituata a colpire forte ma se patisce un po’ di tensione o nervosismo potrebbe fissarsi su traiettorie standard, poco angolate, e palle facili per Stephens, su cui appoggiarsi e rigiocare. È su questo punto di vista che si basa una maggiore completezza di quest ultima. Ad Acapulco, nella finale del 2016, Sloane vinse una delle partite più belle della stagione esaltandosi in fase difensiva, nel terzo set, contro Dominika Cibulkova, che pensava a spingere ma non trovava il modo di chiudere il punto in maniera semplice. Madison è migliorata, un po’ per l’esperienza e un po’ per l’aiuto di Lindsay Davenport, che fu al suo fianco anche all’inizio del 2015 ma si dovettero poi separare per problemi della campionessa americana, prima di ritornare assieme nel 2017 e arrivare, ora, al miglior risultato in carriera. L’esame di questa sera non è banale, se si pensa ai suoi precedenti contro giocatrici definite “ribattitrici” come Simona Halep, Caroline Wozniacki, Agnieszka Radwanska e Angelique Kerber, le migliori interpreti che il panorama internazionale ha offerto in questi anni: appena 3 vittorie su 24 confronti. Stephens, oltre ad attaccare, sa usare molto bene la loro stessa strategia, creando scenari molto interessanti. Dovesse essere lei, infatti, ad imporsi, diventerebbe la giocatrice con il ranking più basso a vincere una prova Slam (ora è numero 83 del mondo, Serena Williams all’Australian Open del 2007 fu numero 81) escludendo Kim Cljisters e Evonne Goolagong, vincitrici di un Major seppure prive di ranking.
Infine, a livello storico, è la prima finale tra due statunitensi senza una Williams in campo dal 1984 quando Martina Navratilova superò Chris Evert 4-6 6-4 6-4.
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