Tennis e musica, un binomio troppo spesso sottovalutato ma di grande impatto, che stimola la fantasia. Dopotutto, cosa c’è di più più bello, per un appassionato di tennis, che “sentire” il suono della palla quando esce dalle corde? Iniziamo questa rubrica con i bassisti, in una “miniserie” che si dividerà in due puntate…
Tony Levin sta a Stefan Edberg, come lo stick bass alla voleé di rovescio. Indubbiamente i due personaggi hanno molto in comune. Entrambi hanno sempre fatto parlare molto di sé per i loro strumenti (basso e racchetta) e soprattutto per il loro elegante utilizzo. Di personalità riservata fuori e dentro al palco/campo, in azione sono sempre stati fantastici. L’eleganza dello svedese e la sua leggerezza sono pari al tocco vellutato e rapido di Levin e la voleé di rovescio del biondo scandinavo il massimo della raffinatezza, come quando l’ex bassista dei King Crimson gioca con maestria formidabile sullo stick bass.
Bum Bum Becker come lo slap di Marcus Miller. Due sempre all’attacco e, perché no, anche sempre un po’ fuori dagli schemi, con uno stile aggressivo inimitabile, capace di nascondere una mano, in realtà, molto raffinata. Potenza si, ma sempre con classe, lo slice di Boris e gli slide in tap del superman del soul. Entrambi avrebbero potuto ottenere di più, allineandosi un minimo, forse, in termini di vittorie e riconoscimenti, ma in fondo se il tuo modo di giocare/suonare incanta folle di appassionati, cos’altro serve?
Marat Safin, un vero frontman bassista come Mark King. Il campione russo e il leader dei Level 42, altri due votati all’attacco, martellando le corde e all’occasione sfiorandole. Se lo slap di Miller è dedicato al soul funk, quello di King è quanto di meglio si possa trovare nel rock pop, mondo ideale per quel pazzo buontempone di Marat, uno che sul ritmo indiavolato non aveva nulla da imparare da nessuno (come disse Sampras dopo la finale allo US Open). Un’altra coppia che forse avrebbe potuto fare di più, ma quanto fatto resta scolpito nella memoria, indubbiamente, e ancora oggi è fantastico vederli esibirsi.
Chris Squire e Andrè Agassi, due che, invece di correre, hanno sempre fatto correre gli altri, perché se c’è un bassista che ha sempre dato il ritmo e dettato i cambi, questo è sicuramente quello degli Yes, così come il Kid di Las Vegas lo faceva nel rettangolo di gioco. Ritmo forsennato, rapidità di esecuzione unica, anche nei passaggi più difficili, come Agassi di fronte ai servizi più forti del circuito. Poi, una visione del tutto sempre originale, dal campo/palco al look. Con loro si andava sempre fortissimo, anche tra un punto e l’altro, dove André aspettava il minor tempo possibile, perché Tempus Fugit, come suonava Squire nell’album DRAMA.
Andy Murray e John Entwistle, due che per natura sembrano restare in disparte, ma poi dominano la scena con un ritmo talmente perfetto che anche quando vanno in assolo non te ne accorgi. Potenza sempre misurata in favore della precisione assoluta e capacità di tocco come pochi altri eletti. Gli Who erano i Mod, nei tempi in cui dominavano le icone Hippy e Punk, un po’ come Andy, il Mod dei Fab Four, posato e Sir fuori dal campo, un diavoletto infuocato pieno di grinta durante i match. Il miglior modo per sintetizzarli? L’attacco di I’m the sea in Quadrophenia.
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