Federer b. Berdych 7-6 7-6 6-4
Diventa difficile, se non impossibile, disturbare oltremodo la propria mente per trovare aggettivi validi, concreti, alla vita sportiva di un uomo, che alla soglia dei 36 anni riesce ad emozionarti anche in un pomeriggio, se vogliamo, meno bello di altri. Roger Federer è passato, presente e ci auguriamo futuro di uno sport, il tennis, che commentiamo con piacere da spettatori non paganti, e con lui è davvero un lusso.
E’ soprattutto presente in questo 2017 da favola, che ha trovato dopo due ore e diciotto minuti della semifinale odierna contro un ottimo Thomas Berdych, la giusta consacrazione, anche se manca una perla al completamento di una collana più unica che rara. Due ore e diciotto minuti per centrare l’11esima finale a Wimbledon (mai nessuno ha fatto tanto in un singolo Slam): mamma mia quanta roba. Berdych ha provato in tutti i modi a mettergli il bastone tra le ruote e lui, ma guarda caso non nei punti fondamentali del match, ci ha messo del suo, trovando modo e tempo, però, nel momento del bisogno e in ognuno dei tre set vincenti che lo hanno portato in fondo ai Championships, la forza per urlare al mondo: “Signori, sono ancora Roger Federer e mi vado a prendere questa finale”. Detto, fatto: 7/6 7/6 6/4 lo score di un match a fisarmonica, una sorta di albero di Natale che si è acceso e spento ogni volta che lui ha voluto, ma che per il Signore di Basilea, ha finito per brillare di luce propria.
Avanti 4-2 con break nel primo set, ha fatto tornare nel match il suo avversario, prima di chiudere un tie break che lo aveva visto, tanto per cambiare, andare avanti 4-2, prima di dire grazie a Berdych per un errore grossolano sul 4-3 e servizio del ceco. Nel secondo tutto regolare, o quasi, sino ad un altro tie break, che lo ha visto issarsi sino al 5-1, prima di subire un minimo di ritorno del suo avversario e chiudere sul 7-4. E il terzo? Mamma mia signori. Ancora brividi, tanti, troppi per un uomo come Federer che, lo ricordiamo, è arrivato in finale senza perdere un set e che era alla sua dodicesima semifinale dalle parti di Church Road, la 42esima in totale. Sul 3-2 Berdych, lo svizzero ha pensato bene di andare sotto 15-40 (tre ace e un servizio vincente), prima di mettere insieme dodici punti a due e di mettere un punto esclamativo sul match, quel “Ti Amo” tanto decantato da Jovanotti sul foglio bianco di un Wimbledon perfetto.
Come dalla paura in poi, con il naso rosso dal raffreddore, ma con la ferma intenzione, più che mai, di andarsi a prendere quello che gli spettava: l’11esima finale a Wimbledon. Ora Marin Cilic, che soltanto un anno fa, proprio da queste parti, sul quel campo centrale tanto amato, era arrivato ad avere due matchpoint per rimandarlo a casa prima del tempo. L’ultimo sforzo, l’ultimo chilometro di una gara leggermente in salita solo nel terzo set contro Raonic e nei tre odierni, ma che potrebbe alla fine regalargli quella gloria immensa che già gli appartiene, ma che è una sorta di primo piatto al quale non si può rinunciare. Un po’ come aglio, olio e peperonicino al termine di una cena conviviale, ma pur sempre priva della ciliegina finale. Vogliamo sognore, ci perdonerà Cilic. Ad occhi aperti, ripensando a quell’incontro all’Accademia di Manacor con lui e Rafa fermi in officina, ma poco dopo immensi, straordinariamente veri, campioni oltre ogni confine.
Oggi Roger Federer è quella poesia da imparare a memoria, recitandola al primo che capita, finendo con l’ultimo. Tralasciando punti e virgole, andando di fretta, ma molto di fretta, verso un finale che immaginiamo, ma teniamo per noi. Aspettando domenica, la seconda a Wimbledon, quella del giudizio finale. Per lui, il Signore di Basilea.
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