Il periodo da favola di Shuai Peng non si interrompe. Dopo aver recuperato la top-100 lo scorso autunno grazie al successo contro Venus Williams a Pechino e il primo titolo WTA in carriera a Tianjin, praticamente il torneo di casa, corona un grande recupero verso la top-20 aggiudicandosi a Nanchang il secondo alloro nel circuito maggiore, tornando anche numero 1 del proprio paese.
Grande gioia per la giocatrice di Xiangtan, cittadina situata a nord-est di Tianjin, appunto, che è rientrata lo scorso anno, a marzo, dopo un infortunio che l’ha tenuta lontana dai campi per un anno. Un problema alla schiena patito inizialmente a metà aprile, nel weekend di Fed Cup e che l’ha poi vista giungere fino a Parigi prima di dire “basta”. Perso il primo turno, per ritiro, la cinese in conferenza stampa dichiarò che la sua stagione era già finita. Uscì dalla top-100 in autunno, a gennaio 2016 perse i gradi di numero 1 del tennis cinese a favore di Shuai Zhang. Non era certa di poter rientrare: come diceva Maria Sharapova, le domande nel momento del possibile rientro iniziano ad aumentare e la sensazione è quella di andare verso l’ignoto, in una situazione in cui non si ha la minima idea di cosa potrà succedere, quali saranno le reazioni, se effettivamente ci sarà modo di rientrare ai livelli di prima.
Peng, messa un po’ in ombra durante la carriera dai risultati e dalla crescita imponente di Na Li, divenuta bi-campionessa Slam e numero 2 del mondo, a febbraio 2014 è riuscita comunque a diventare la prima giocatrice cinese (maschi compresi) numero 1 al mondo in una classifica tennistica: il doppio. In quella specialità, accompagnata da Su Wei Hsieh, si è tolta tantissime soddisfazioni, come vincere Wimbledon 2013 e il Roland Garros 2014. In singolare, al di là dei due successi entrambi in Cina, Peng riuscì a compiere una piccola impresa nello US Open 2014. Furono due settimane di gioia, rovinate dalle immagini crudeli di una semifinale, la prima in singolare in un Major, terminata per ritiro a inizio secondo set contro Caroline Wozniacki. I crampi, il corpo disidratato in una giornata afosa. Non riusciva a reggersi in piedi e dopo un primo medical time out ha provato a riprendere la partita prima di perdere completamente le forze e accasciarsi a terra, trasportata poi via su una sedia a rotelle.
La sua storia, però, come quella di Li, vale molto più di un semplice risultato sportivo. Se sono diventate qualcuno nel circuito WTA è anche perché hanno creduto di poter modificare le rigide regole del proprio paese. Ogni vittoria, ogni risultato, ogni titolo è un nuovo sassolino nella scarpa tolto contro la federazione cinese, che attua ancora un forte ostruzionismo nei confronti suoi e di tutti gli atleti connazionali: pagano le spese ma in cambio chiedono il 65% dei guadagni dei montepremi e quasi il totale degli introiti provenienti dalle sponsorizzazioni.
Shuai nel 2002 fu notata dal manager della IMG John Cappo, che cercava una campionessa cinese per espandere il mercato della sua società. Cappo conosceva bene quali fossero i problemi della sua assistita e dopo essersi impegnato a fondo ottenne un accordo con la CTA (la Federazione Cinese) che permise a Peng di allenarsi in Florida in cambio però di continuare a giocare per la squadra di Tianjin. Lontana dai veti e dalle restrizioni del suo paese, il suo talento cominciò ad emergere fino ad arrivare al numero 37 del mondo. A quel punto in Cina, qualcuno all’interno della Federazione cominciò a storcere il naso e ad invocare il rispetto dei propri diritti. Il braccio di ferro fu estenuante e il caso divenne ben presto di matrice politica, con il partito comunista che, come avvenuto poco più avanti anche in Giappone con Kei Nishikori, anche lui emigrato alla IMG, cominciò a far leva su questo caso per accusare Peng di essere antipatriottica, una mancanza di rispetto molto grave nel loro paese. A supporto di Shuai arrivò Na Li, anche lei incapace di crescere con il governo cinese che le prendeva gran parte del denaro, conscia che da quel momento tutte le accuse mosse alla prima sarebbero state automaticamente anche contro di lei.
Il loro caso divenne sempre più di interesse nazionale e con le Olimpiadi di Pechino ormai alle porte lo stesso partito comunista, tramite tutti i media cinesi, le minacciò di escluderle dai giochi a cinque cerchi se non ci fossero stati dei passi indietro. Il buon senso prevalse e la loro battaglia portò alla nascita nel 2008 della “Danfei” (che in cinese significa “volare da soli”): le due giocatrici ottennero il diritto di intascare il 90% dei loro guadagni e di poter programmare in tutta tranquillità la loro vita da professionista senza interferenze, dovendo comunque pagare di tasca propria l’allenatore e le spese di viaggio, a patto che portassero gloria e lustro alla Cina.
Da quel momento la storia tennistica cinese è cambiata. Peng e Li hanno raggiunto posizioni di assoluto valore, Jie Zheng ha conquistato 4 titoli WTA, è salita al numero 15 del mondo in singolare e numero 3 in doppio, partecipando a due semifinali Slam (Wimbledon e Australian Open, in singolare) dopo aver già vinto due titoli Slam in doppio (Australian Open e Wimbledon, entrambi nel 2006). A nove anni dalla fondazione della Danfei, la Cina tennistica è uno dei posti più all’avanguardia a livello mondiale per i propri impianti, ogni anno si disputato decine di tornei internazionali tra Challenger, ITF, ATP, WTA e Master junior. Tutto questo lo si deve soprattutto a Peng e Li, ribellatesi contro la loro stessa nazione, capaci di generare già nei primi anni un mercato stimato in 4 miliardi di dollari. Questo massiccio investimento sul tennis coincise con una emergente classe media urbana e le politiche del presidente cinese, Xi Jinping, volte a incoraggiare la competizione economica e attirare capitali stranieri. Dopo che Li vinse l’Australian Open, nel 2014, la Nike tappezzò la sua faccia in tutta la Cina con un messaggio di ispirazione che recitava: “Osa arrivare più in alto del cielo”.
Si potrà però continuare su questo trend? Alcuni aspetti ancora si oppongono alla ‘internazionalizzazione’ del tennis cinese. Aderendo alla Danfei bisogna comunque essere in grado di pagarsi una stagione coi propri fondi. Li e Peng potevano permettersi di rifiutare gli aiuti finanziari della CTA (e del partito comunista, indirettamente) perché erano brave abbastanza da vincere e guadagnare. Ma un giocatore cinese ATP come Wu Di a causa dell’obbligo di versamento del 65% dei guadagni, e di una classifica mai pienamente sbocciata, non può permettersi di vivere e spostarsi a proprio carico. E così continua a fare la spola tra l’ATP e il suo team della provincia di Shanghai, in modo da guadagnare gli assegni del partito: un giocatore come lui può incassare 60.000 dollari per indossare il marchio degli sponsor del team locale o ricevere un bonus con cifre a sei zeri se conquista una medaglia nei National Games. Questi incentivi sono sufficienti per far sì che alcuni giocatori ci pensino due volte prima di inseguire ambizioni dall’esito incerto nel circuito mondiale. Carlos Rodrigez, ex coach di Justine Henin e Na Li, nel 2010 aprì a Pechino una scuola di tennis per 400 studenti. Molti di loro non vollero legarsi alla Danfei: “È una cosa personale. Non possiamo dire loro che sbagliano. Finchè hanno quello che vogliono, non posso criticarli”.
Oggi, comunque, Peng si starà godendo ogni piccolo istante del suo personale capolavoro: il rientro da numero 768 del mondo a numero 23. A trentuno anni e dopo un brutto infortunio alla schiena, con la possibilità di crescere ulteriormente grazie ai pochi punti in uscita da qui a fine anno e un gioco, il suo (bimane di dritto e rovescio) che sarà sempre fastidioso. Il passato e i momenti difficili sono alle spalle, il presente è tutto suo, tanto gentile ed educata, che anni fa ha preso il coraggio a due mani e ha attuato una prima importante rivoluzione nell’universo tennistico cinese. Ancora non basta, ma il gesto fu un chiaro segnale che non ci si deve sentire schiavi di un governo, o di una federazione, che vuole sfruttare gli atleti come oggetti per i loro interessi.
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