Il 16 luglio come il 24 o 25 dicembre, come il 31, come il giorno del tuo compleanno. Come prima e più di prima. Per te, si proprio te, che hai iniziato a sognare con, sopra la testa, nella tua cameretta di provincia, il poster di Jimmy Connors, o magari di John McEnroe, o prim’ancora, bontà loro, di Rosewall e Laver ed oggi ammiri, da spettatore non pagante, le gesta di questo 36enne giovane giovane, di nome Roger Federer, capace di manovrare l’attrezzo tecnico, meno pesante del legno stagionato di un tempo e più leggero di uno stelo di protesi d’anca, come nessun altro al mondo.
Vestito di bianco, con il baffetto miliardario lassù in cima e quel Rf, che è molto più che un semplice marchio di fabbrica. Bello, bello da morire, al punto da amarlo e odiarlo al tempo stesso come la compagna di sempre, che ti sgrida, che vorrebbe restare al mare in una domenica così calda e afosa, ma che viene spinta a forza davanti al video, perchè c’è lui, il Signore di Basilea, l’unico capace di giocare, su 102 partite complessive a Wimbledon, ben 82 sul centrale. L’ultima, in ordine di tempo sia chiaro, domenica 16 luglio, contro Marin Cilic, contro la storia, contro se stesso e quell’innato desiderio di baciare, ancora una volta, per l’ottava volta, la coppa dorata, ricamato a mano nemmeno fosse il corredo di una sposa. Ha vinto lui, come da copione, come in un sogno, l’ennesimo, che diventa realtà. Ha vinto lui perchè, come nei precedenti 18 Slam, ha deciso di farlo, se l’è messo in testa.
Federer, un bel giorno, è andato da Nadal a Manacor e gli ha detto: “Senti, che ne dici se ci rimettiamo in gioco alla grande. Dai Rafa, proviamoci. Dai, abbiamo ancora tanto da dare a questo mondo. Ti va o no?”. Si son messi d’accordo, hanno sorriso insieme, si son quasi presi in giro, ma l’hanno fatto. Australia a Roger. Parigi a Rafa, Wimbledon a Roger. Tanto per gradire. Tre punti esclamativi sul tennis robotizzato e di una next generation ancora acerba. Un gancio destro, condito da un sonoro montante, a chi si era recato all’Inps provando a rubargli la pensione. Se, vabbè: fossi così facile. Per loro, il resto, lo è. Entrare in campo e vincere. Rafa lo ha fatto a Parigi, e sono dieci, Roger lo ha imitato a Wimbledon, e sono otto. Due numeri, altrettante imprese, due cassetti che si sono improvvisamente riaperti, regalando memorie indelebili nella storia di un rettangolo rosso e di uno verde, un po’ spelacchiato, ma pur sempre verde. Come gli anni bloccati nel freezer di casa Federer, dove il bianco dona, eccome se dona, come qualsiasi altro colore, come l’oro luccicante di una Coppa che torna a casa, nella sua casa, in quelle quattro mure che racchiudono la storia del tennis. La storia di un uomo che si è permesso il lusso di aprire il libro, trovare una pagina bianca lì in fondo e completarla con la biro nera di una racchetta che, tanto per cambiare, ha usato a meraviglia. Consegnandoci l’ennesima perla di una collana ben lungi dall’essere completata.
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