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Fenomenologia Nadaliana

In quel dritto no-look da fuori dal campo su un bellissimo rovescio in cross di uno che di rovesci se ne intende come Stan Wawrinka, c’è tutto il valore tennistico e atletico di Rafa Nadal.

Che è un difensore e rimane difensore, parlando di basi tennistiche da cui partire, per costruirci attorno tutto il resto; una difesa letale che si trasforma in qualcosa che ti fa saltare dalla sedia, dal divano, che in una città come Roma liquiderebbero con un “Allora sei mejo te”.

È meglio lui, migliore di tutti quanti su quel campo a Parigi che lo ha visto trionfare ben dieci (DIECI) volte, un record che quasi sicuramente nessuno eguaglierà nello stesso Slam, un traguardo incredibile nella storia dello sport che conferma la simbiosi tra Rafa e la terra battuta, per un giocatore che sembra nato per giocare a Bois de Boulogne, che si muove sulla terra rossa meglio di chiunque altro e che ormai guarda a Bjorn Borg da troppo in alto per potercisi paragonare.

Ma questa vittoria non vale di più solo per il record: vale di più perché arriva dopo tre anni di digiuno da Slam, da Parigi, tre anni in cui Nadal ha preso schiaffi a destra e a manca, in cui ha sempre tentato invano di tornare a vincere qualcosa di importante. In cui ha visto altri baciare quella Coupe des mousquetaires e forse per un attimo gli è passato per la testa il dubbio di non poterla più mordere, alzare, ascoltando l’inno spagnolo sullo Chatrier.

E ieri lo guardavi, mentre con una nuova tenerezza matura coccolava quel trofeo come fosse una sua creatura: di sicuro non è di nessun altro. Nessun altro come lui l’ha voluta con la testardaggine di un vincente nato, che vincere è sempre un altro sport e pochi altri sanno farlo come Rafa; pochi altri hanno saputo incassare pugni e difficoltà con la calma e la pazienza dello spagnolo, giocando male e non riuscendo più a somigliare a se stesso.

E togliamo a questo punto di mezzo anche un equivoco che in queste ore campeggia tra le giuste parole di elogio per uno dei più grandi campioni della storia di questo sport: no, Nadal non è più forte adesso di prima, così come non lo è Federer.

Entrambi sono giocatori più completi che hanno saputo migliorarsi di anno in anno, che non si sono mai accontentati e adesso, complessivamente, giocano a tennis più consapevolmente di quando si sfidavano mentre il mondo apparteneva soltanto a loro; l’esplosività, l’intensità mentale e fisica, però, non sono le stesse. E ci mancherebbe altro: gli anni sul circuito ci sono e sono tanti, nonostante spesso fan di tutto per non farcene accorgere.

La differenza con gli altri sta nella capacità di non accontentarsi e nel saper trovare modi diversi di trionfare, di vivere e amare il tennis. In un anno in cui c’è chi non riesce a trovare motivazioni per andare avanti, chi batte la fiacca e chi non riesce ad emergere a livello altissimo (come da troppe stagioni a questa parte) i due si sono ancora spartiti, fin qui, il bottino, salvando la faccia a un circuito altrimenti privo di vero interesse.

C’è chi pensa che questo non è che l’inizio per Rafa, come c’era chi a Marzo pensava che Federer potesse incredibilmente ambire a tre quarti di Slam; gli stessi che lo scorso anno, dopo il trionfo di Novak Djokovic al Roland Garros erano certi del Grande Slam e del superamento del record totale dei titoli dello Slam: il tennis è uno sport durissimo e sebbene sia chiaro si parli di veri fenomeni, chiede sempre un prezzo da pagare.

Lo svizzero, conscio di ciò, ha saltato l’intera stagione sulla terra. Non è detto che Nadal faccia lo stesso con la cortissima stagione su erba ma siamo certi che oggi, mentre ancora rivive tutto come un sogno, ci stia pensando.

Perché in qualche modo hanno fermato il tempo, sfidato leggi della natura e della fisica: farlo senza ritegno potrebbe però voler dire di non aver imparato nessuna lezione.

Rossana Capobianco

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Rossana Capobianco

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