Dunque, eravamo rimasti al 2006, giusto?
Quando Federer dominava sul cemento e Nadal era la sua nemesi sul rosso…
Beh, i tornei di preparazione al Roland Garros sembravano continuare a farci viaggiare sulla macchina del tempo, almeno fino ad oggi, quando un tedesco di belle speranze ha deciso (finalmente) di far capire a tutti che il futuro sta arrivando, o che forse è già qui.
Ma andiamo con ordine.
I Masters 1000, dopo le avvisaglie statunitensi, parevano dover restare un affare svizzero-spagnolo. Nadal che dopo Montecarlo, dove alzava per la decima volta il trofeo, si prendeva in fila anche Barcellona e Madrid, dando la sensazione di un ritrovato strapotere terraiolo che non si vedeva su questi schermi da almeno 3-4 anni. Soprattutto a Madrid si toglieva la soddisfazione di strapazzare niente meno che quel Djokovic che lo aveva battuto per sette volte di fila e che dopo la vittoria a Parigi della passata stagione, pareva dovesse allora prenderne l’eredità sul mattone tritato.
E se a Montecarlo la cavalcata verso l’ennesimo successo era stata quasi una passerella, con i Murray e i Nole che continuavano a rimediare figuracce una dopo l’altra, a Madrid la cosa si era rivelata un po’ più complicata, soprattutto grazie a un Fabio Fognini che aveva fatto vedere i sorci verdi a Rafa resistendo per tre ore e a un Dominic Thiem che finalmente mostrava solidità e carattere, riuscendo persino a dare filo da torcere allo spagnolo, dopo che a Barcellona era stato letteralmente preso a bastonate.
A Roma tutti poi si aspettavano magari una scossa di Murray, quest’anno ancora letteralmente desaparecido e a detta di tutti solo grazie al computer ancora al numero uno in classifica, eppure lo scozzese incappava al secondo turno nel miglior Fognini degli ultimi due anni e filava dritto a casa. Per lui il rosso ormai si riduce a un Roland Garros dove difende la finale dello scorso anno e che ci dirà davvero se si merita di restare davanti a tutti, anche se poco cambierà in cima, anche dopo il secondo slam.
Il viatico al nuovo slam rosso di Nadal sembrava cosa fatta per molti, malgrado il diretto interessato dichiarasse di sentirsi dolorante e stanco (perché allora sia andato a Roma non si sa), eppure un po’ un Thiem che dopo svariati tentativi trovava la prestazione dell’anno e un po’ un Rafa in giornata “non-è-che-mi-danno-per-vincere”, davano vita alla prima sorpresa del torneo. Lo spagnolo usciva nero dal campo, ma chiunque sa benissimo che a Parigi salvo sorprese l’uomo da battere sarà lui, e probabilmente potrà battersi solamente giocando contro sé stesso, specialmente con 3 preziosissimi giorni di riposo in più.
Sorpresa del torneo, dicevamo?
Almeno fino alla rinascita di un Djokovic che prima di Roma pareva indirizzato su un cammino di meditazione hippie piuttosto che verso campi da tennis, dopo aver mandato a spasso l’intero team di collaborazione. Il serbo tentennava nei primi turni, poi batteva quel che restava di del Potro dopo l’ennesimo schema argentino “vittoria su top ten (Nishikori, al rientro dall’84° infortunio) e crollo”; infine nello stesso giorno, causa pioggia, vinceva il suo personale 3 set a 0 annichilendo proprio quello che si dicesse avesse steso Nadal.
Era questa la vera sorpresa? Nole che tornava a vincere dopo mesi di “gamberizzazione” tennistica?
Macché, il meglio il torneo lo aveva lasciato per il finale. E non ci stiamo certo riferendo alla decisione di Federer di saltare anche Parigi dopo aver sostituito Madrid, Roma e il Roland Garros con un’esibizione con Murray, una partita con Bill Gates e il matrimonio di Pippa Middleton.
La sorpresa migliore ce la dava, come detto all’inizio, quel Godot germanico che ancora sembrava non dover raggiungere quei palcoscenici che tutti gli pronosticano già da un paio di anni. Parliamo ovviamente di quel Sascha Zverev che prima batteva (dopo che come detto la miglior controfigura la avevamo ammirata con Murray) il peggior Fognini degli ultimi dieci anni (ripagato dalla nascita del piccolo Federico, auguri!), poi umiliava quel che resta di Raonic, teneva a bada Isner con una solidità degna del miglior Federer e finiva la sua opera in finale battendo Nole senza concedergli nemmeno una palla break.
Il tedesco si prendeva così il primo Masters 1000 della sua carriera ed entrava di prepotenza tra i top 10 a soli 20 anni, sventagliando in faccia a tutti il suo biglietto col destino. Quel destino che non fa succedere cose a caso: chi era stato il più giovane vincitore di un 1000 prima di Zverev? Guarda un po’, quel Djokovic che oggi annaspava per il campo per prendere i missili di un ventenne che comanda come un veterano e che spara vincenti da ogni parte. Quel destino che, lo sappiamo, non crea passaggi di consegne a caso.
Quel destino che dal 2006 in cui oramai ci eravamo convinti di ri-vivere oggi ci ha “ritornati” al futuro, dopo mesi di Fedal e di sogni disillusi di cambiamento.
Quel destino che ha cominciato a soffiare, portando una brezza di birra e crauti che ci aspettavamo sì, ma magari non così presto. Quel destino che ora ci porta a Parigi, città di amori e sogni, e magari, chissà, di consacrazioni e ulteriori passaggi di consegne.
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