Immaginando Roma. L’apparizione di Vitas Gerulaitis
Immaginando Roma. Da Connors a Mc, un torneo non per tutti
1961, gli albori dei mitici Sixties.
Mentre ad Amburgo la bionda Astrid Kircherr sforbiciava alla Giulio Cesare i capelli
a quattro teddy boys di Liverpool con la chitarra, a Berlino prende forma concreta l’incubo della “cortina di ferro” evocato da Churchill in un profetico discorso del 5 marzo 1946. Nella capitale tedesca ha inizio la costruzione di un muro che per quasi trent’anni separa amici e fratelli, simbolo visibile di un mondo diviso a metà. Il 26 giugno di due anni dopo è una giornata ventosa e quel muro una dolorosa realtà. Da un podio imbandierato eretto in Rudolph-Wilde-Platz il ciuffo alla James Dean di John Fitzgerald Kennedy è spettinato mentre celebra “the fighting spirit of West Berlin” con il celebre passaggio “Today, in the world of freedom, the proudest boast is Ich bin ein Berliner!”. Oggi quella è la sua piazza. Gli fu intitolata tre giorni dopo l’assassinio di Dallas.
Il loro muro gli uomini con la racchetta lo aveva costruito ben prima.
Il passaggio del grande Tilden fra le puttane dei pro (ipse dixit) alla fine del 1930 non poté essere ignorato e fino al 1968 una barriera, invisibile, impenetrabile, ipocrita, tagliò in due il mondo del tennis. Chi passava di là pagava l’affronto con l’esclusione dal circuito ufficiale che comprendeva Wimbledon, la Davis e tutto il resto. Il risultato fu che per decenni i campioni veri erano altrove, con pochissime eccezioni. Una di queste fu Roy Emerson, l’australiano scolpito con l’accetta che si credeva sempre il più forte di tutti.
Un’altra fu Nicola Pietrangeli, nato a Tunisi lunedì 11 settembre 1936.
“I miei nonni materni russi e nobili , quelli di mio padre tedeschi e svedesi. Insomma, sono un bel bastardo ma avrei potuto farmi chiamare conte”.
In questa dichiarazione c’è tutto il personaggio.
Cosmopolitismo, consapevolezza del proprio valore, furbizia e quel pizzico di ribalderia che quando è ben dosata non guasta.
Ma poi c’era la pigrizia, caratteristica , quella sì, tutta italiana fin dagli ozi capuani di Annibale Barca, il fulmine di guerra.
Il talento evidente gli avrebbe consentito qualunque tipo di gioco, ma quanto era più comodo governare scambi e avversari da fondocampo con quel rovescio olimpico – più forte del dritto al pari di grandi come Budge e Jimmy Connors – che era pura sinfonia?
Solo il piccolo maestro Rosewall rivaleggiava con lui in quel colpo.
Era bravo come i pro, li batteva spesso in allenamento e nel 1960 Jack Kramer riuscì finalmente a fargli firmare un contratto per passare l’Acheronte.
Ricco, ricchissimo. Faraonico.
Ma significava essere banditi dal salotto buono dei circoli più prestigiosi del mondo, nei quali il suo sguardo ceruleo faceva strage di cuori. In cambio scompartimenti di treno e sedili d’aereo per dieci mesi l’anno, arene improvvisate e spogliatoi fatiscenti con un chiodo per appendiabiti. Decise che i soldi non valevano quella vita scabra, alla quale per natura era poco incline. Preferì l’esistenza comoda del circuito ufficiale, nel quale comunque circolavano cospicui “Under the table money”, come li chiamava lo sgamato Bobby Riggs, uno che ne capiva e che forse li aveva pure inventati.
Nicola Pietrangeli fu un tennista sublime pur non sfruttando al massimo tutte le doti che possedeva. Resistentissimo e solido, sapeva essere potente ma preferì sempre l’accuratezza del piazzamento, il controllo totale della palla. La sensibilità del tocco gli consentiva comunque un’agevole frequentazione della rete, come stanno a mostrare i notevoli successi in doppio con Orlando Sirola e un giovane Panatta.
Quando si aprono gli Internazionali d’Italia 1961 Nick è considerato il più forte tennista del mondo sulla terra battuta. Ha vinto i due precedenti il Roland Garros e anche quell’anno Parigi lo vedrà in finale. Perderà al quinto contro l’astro nascente Santana, pagando forse carissima una fuga a Roma per la nascita del figlio.
“…vado dal giudice e gli dico che parto. La domenica sono partito, mio figlio è nato e ancora oggi non so perché l’ho fatto ma sono rimasto a Roma altri tre giorni”.
Novello Annibale, appunto.
Si celebra il centenario dell’Unità d’Italia e quell’anno il torneo si gioca a Torino, capitale fino al 1865, sui campi rossi del Circolo della Stampa.
I nomi sul tabellone certificano durezza e lignaggio della competizione. Oltre a Nicola e Beppe Merlo ci sono lo spagnolo Manolo Santana, inventore del lift estremo, e tre australiani uno più forte dell’altro. Nell’ordine Neale Fraser, Roy Emerson e un ventiduenne dall’occhio di falco che è solo all’inizio ma ha già fatto parlare di sé.
Il suo nome è Rodney George Laver, per tutti Rod.
Pietrangeli ci ha già perso due volte, entrambe sull’erba dove il suo tennis è certamente meno redditizio. Nella semifinale di Wimbledon 1960 però mancava tanto così… Nicola si era arreso solo al quinto per 6-4, pagando salatissimo un calo di concentrazione in battuta all’avvio del set decisivo. Adesso però si gioca sulla sua superficie preferita, è in gran forma e in quella primavera ha trionfato dal Cairo a Montecarlo e sembra non conoscere sconfitta. A Torino sorvola il torneo senza perdere un set, annichilendo in semifinale Roy Emerson, un tipino capace di dodici Slam in carriera.
Dall’altra parte dell’arena Laver deve lottare molto più duramente per arrivare alla finale di lunedì 15 maggio. Non è ancora il consapevole monarca del tennis ma il suo gioco appare comunque rivoluzionario. Anticipo estremo, uso del polso, top spin violento anche dalla parte del rovescio, assalto della rete. L’anno dopo sarà Grande Slam, il primo di due. Spende moltissime energie per domare l’orgoglio di Beppe Merlo prima e di Santana poi e quando arriva l’incontro decisivo non ne ha più.
L’australiano dà tutto nel primo set, nel quale predominano scambi entusiasmanti soprattutto perché Nicola accetta il gioco pesante per non farsi intimidire.
Laver sembra padrone quando gli strappa due servizi per un 5-1 illusorio quanto una fatamorgana. Da quel momento Rod vincerà solo sette giochi in tre set e mezzo. Pietrangeli ci ha messo un po’ a scaldare il fisico massiccio e ora tutto gira a meraviglia. Esalta i duemila spettatori presenti sul Centrale con una rimonta furiosa che lo porta al 5 pari. Si va ad oltranza e solo due rovesci lunghi – vos quoque! – consentono a Laver il break decisivo per un 8-6 sfiancante.
Ed ecco che Pietrangeli Nicola da Tunisi decide di non sbagliare più. Letteralmente. Oltre la rete c’è un combattente vero, uno che dai suoi allenatori, prima Hollis poi Hopman, è stato cresciuto nel culto della resistenza fisica, della lotta su ogni palla. Ma gli servirebbe un bazooka per sfondare il muro che gli si para davanti, non la sua misera Dunlop.
Nick adesso piazza i colpi negli ultimi cinque centimetri del campo, impedendo al suo avversario qualunque aggressione per mezzo della sola lunghezza di palla. Poi, quando decide che è il momento giusto, chiude. Sono colpi di stiletto continui che pian piano dissanguano il grande australiano, costretto ad attaccare da lontanissimo e ripetutamente battuto da passanti piazzati col mirino. I due stanno ancora giocando ma la partita non c’è più. Nello spazio di tempo occupato del primo combattuto set Pietrangeli ne vince tre col punteggio di 6-1 6-1 6-2.
È il suo secondo titolo agli internazionali d’Italia, uno degli ultimi urrah importanti di una carriera irripetibile.
Adesso tutti sapevano che poteva essere il più forte, in fondo a lui bastava così.
“Parva sed apta mihi”.
15/05/1961
Internazionali d’Italia, Torino – Finale
N. Pietrangeli b. R. Laver 6-8 6-1 6-1 6-2
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