Agosto 1982, mio padre sradica la famiglia dai rassicuranti dintorni di Cesenatico. Destinazione Corfù via Brindisi per due settimane di navigazione in flottiglia fra le isole, una decina di barchette che non arrivavano ai dieci metri.
Andar per mare a vela è una rivelazione che può sconfinare nella filosofia.
Prendete la bolina. Secondo la mia esperienza succede così: si sceglie un porto o una rada da raggiungere e la mattina della partenza il vento proviene da lì. Ti tocca risalirlo con bordi infiniti, prima di qua poi di là decuplicando la distanza. Barca sbandata ed equipaggio fradicio. Non si può fare altro, ma alla fine arrivi e hai imparato che certe volte nella vita non hai alternative, devi lottare e basta.
Sono ricordi di poca importanza o punta, utili solo per chiarire le radici di una passione che l’anno seguente diventerà febbre per tutti. Si sentirà narrare di un trofeo dalla storia antica, impossibile da strappare ai detentori. È solo sport, certo. Ma molte penne non sanno inventare simili saghe di tenacia, umiltà e capacità di sognare.
Questa è una storia di uomini che annusano il vento, una ballata del mare salato, prendendo maldestramente a prestito uno dei migliori titoli della letteratura mondiale. Ma anche un legal thriller di quelli che ti tengono incollato alla poltrona, e perché no, un giallo scontato, dove alla fine l’assassino è il maggiordomo.
La storia di prue affilate che fendono l’oceano, condotte dai migliori equipaggi del mondo in una lotta senza quartiere uno contro uno e della barca che fece sciogliere in lacrime una nazione intera ponendo fine a 132 anni di dominio ininterrotto. La più lunga striscia vincente che lo sport abbia mai visto.
È la storia di Australia II, la barca con le ali. E del suo condottiero, John Bertrand.
Questa è l’America’s Cup, la Coppa di America, il luogo dove “Non c’è secondo”.
La frase che diventa immediatamente il motto della competizione è attribuita all’attendente della Regina Vittoria. Non ne esiste la certezza assoluta ma quelle poche lettere di fulminante concisione sono troppo perfette per non diventare subito vere.
Siamo nel 1851, l’ Europa è dominata dagli imperi e quello britannico fa la parte del leone, in Francia un secondo Napoleone prende il potere mentre l’Italia non esiste ancora. Oltreoceano un giovane paese ha conquistato l’indipendenza dalla madrepatria e cresce a dismisura correndo verso Ovest.
La Prima Rivoluzione Industriale ha modificato profondamente le strutture sociali ed economiche, la Seconda concentrerà patrimoni immensi nelle mani della Borghesia, la nuova padrona del mondo. Il sobrio capitalista vittoriano vestito di scuro, imbevuto di morale calvinista che persegue il successo in terra come segno di predestinazione alla grazia divina è l’immagine dominante di quest’epoca.
In primavera si apre a Londra la prima Esposizione Universale, pensata per mostrare al mondo “the Works of Industry of all Nations”. Qualche mese prima il Royal Yacht Squadron britannico invita, o meglio sfida, il New York Yacht Club a competere nelle regate celebrative che si sarebbero tenute nel Solent, il braccio di mare che separa l’isola di Wight dalla terraferma inglese.
Le ferite della Guerra Angloamericana del 1812, quella che portò all’incendio della magione presidenziale che solo dopo la ricostruzione verrà chiamata Casa Bianca, si erano appena rimarginate e la nuova nazione era ormai una realtà a livello internazionale. Dopotutto i legami economici e commerciali, ma soprattutto culturali, con l’Inghilterra restavano molto stretti quindi perché non accettare?
Il club newyorkese si era costituito da poco tempo e vedeva nella sfida un modo per aggiungere lustro al suo guidone, una croce rossa su campo blu con una stella bianca nel mezzo. L’anziano commodoro John Cox Stevens si affretta a radunare intorno a sé un gruppo di uomini in grado di garantire il successo nell’impresa di battere i dominatori dei mari. Il consorzio affida la costruzione della barca a George Steers, un architetto navale trentaduenne che insieme al fratello si era fatto un nome nel realizzare le migliori pilotine del porto di New York. All’epoca il primo che raggiungeva la nave guadagnava il diritto di guidarla, quindi era una lotta senza quartiere che spingeva i progettisti ad innovazioni continue alla ricerca della massima velocità.
Ed è a questa che Steers punta quando disegna le linee del suo capolavoro che abili maestri d’ascia realizzano con cura. Lo schooner America viene varato il 3 maggio 1851. È una lama tagliente di trenta metri, la larghezza massima non arriva a sette. Due alberi fortemente inclinati verso poppa reggono vele in cotone leggero e resistente cucite a macchina con disegno innovativo. Ma non c’è tempo per troppe celebrazioni. Il comando è affidato a John “Old Dick” Brown, una veloce messa a punto, qualche regata di riscaldamento e allo scoccar dell’estate America si lancia nell’Atlantico con soli otto uomini di equipaggio. Il vascello completa la traversata fino a Le Havre in venti giorni e dopo una sosta fa la sua comparsa nelle acque del Solent. E non passa inosservata.
Gli inglesi sono scettici, “Linee curve e concave invece che dritte, due soli alberi e poco altro. Se quella barca è giusta, noi siamo tutti sbagliati” sarà il miope commento del marchese di Anglesey, uno dei membri più influenti dello Yacht Squadron reale.
Poi la mattina del 31 luglio, mentre America si sta dirigendo verso Cowes dove è attesa dal comitato di accoglienza, all’orizzonte compare Laverock, un velocissimo cutter da corsa. La barca si avvicina con l’intento evidente di sfidare i nuovi venuti.
Il guanto viene lanciato e raccolto prontamente.
America non è in assetto di gara, ha la stiva piena e l’equipaggio non è al completo ma quando le vele vengono tesate a puntino ed entra nel vento “accelera visibilmente, recupera un piede dopo l’altro le oltre 200 yarde di svantaggio, passa in testa e scompare all’orizzonte”, racconta una testimonianza giunta fino a noi.
Una gran prova di forza, un pessimo affare economico.
Stevens e i suoi pensavano infatti di racimolar denaro per rientrare delle spese scommettendo sulla loro barca nelle decine di competizioni in calendario. Ma quando la notizia della corsa contro Laverock si diffonde nessuno vuole essere il primo sfidante dei cugini. La barca languisce in porto per settimane prima che i giornali britannici e l’opinione pubblica comincino a schierarsi dalla sua parte, accusando gli ospiti di scarsa sportività. Lassù questa è un’onta pesante e a furor di popolo l’iscrizione del vascello dipinto di nero viene accettata per una delle ultime regate, lungo un percorso che circumnaviga l’isola di Wight. In palio una coppa d’argento in forma di brocca detta “delle cento ghinee”, alta e panciuta in mezzo, realizzata dalla prestigiosa gioielleria Garrand & co di Londra. Diverrà familiarmente nota come Auld Mug, la vecchia tazza.
America è sola contro i quattordici migliori scafi dell’Impero Britannico, al colpo di cannone che segnala la partenza un problema alle ancore la relega all’ultimo posto ma come era successo contro Laverock, appena il cotone magistralmente tagliato delle vele incoccia il vento lo spettacolo comincia. Il comandante Brown ha ingaggiato un pilota della zona per districarsi nelle acque del Solent e sceglie di rischiare, tenendo le boe del percorso a dritta invece che a sinistra. L’azzardo riduce notevolmente la distanza da percorrere e il resto lo fa la strabiliante velocità di America con vento al traverso. Le vele leggere sono decisive, gli avversari utilizzavano ancora quelle di pesante lino, che in più doveva essere costantemente bagnato per rimanere rigido. La barca statunitense prende agilmente il comando della flotta e quando alle 8.35 di sera taglia il traguardo i sorrisi di circostanza degli inglesi sono spenti da tempo.
Sullo Yacht Reale la regina fa una domanda, un attendente risponde.
La vecchia tazza viene subito ribattezzata “Coppa di America” e il sindacato vincente la dona al New York Yacht Club, accompagnandola con una lettera detta Deed of Gift, atto di donazione. Il documento stabilisce che il trofeo verrà sempre messo in palio ove ci fosse uno sfidante come “perpetual challenge cup for friendly competution between the nations” ed elenca le regole di gara che i concorrenti erano tenuti a rispettare. Si trattava di precetti draconiani, tesi ad accordare al defender numerosi vantaggi.
Il principale era costituito dal fatto che la barca sfidante, come accadde per America, avrebbe dovuto attraversare l’Atlantico navigando per raggiungere il luogo della contesa. Questa regola venne emendata solo nel 1958 ma fino ad allora dette agli statunitensi l’enorme vantaggio di poter gareggiare con vascelli leggerissimi, pensati e costruiti solo per la gara mentre gli sfidanti dovevano per forza realizzare barche molto più pesanti adatte alla traversata oceanica.
Lo scoppio della guerra civile fra nordisti e sudisti tinge di sangue il filo della storia ma non lo spezza e quando nell’ultimo quarto del XIX secolo le sfide riprendono gli Stati Uniti sono già la nazione più potente del mondo senza saperlo. Dieci sfide, otto inglesi e due canadesi, vengono facilmente respinte dai detentori, che in quegli anni eroici si avvalgono del genio di Nathaniel Herreshoff, che presto tutti cominceranno a chiamare “Il mago di Bristol” e ancor oggi è considerato il più grande progettista navale di sempre. Insieme al fratello John Brown, un genio della chimica cieco dall’età di 15 anni ma capace di percepire col solo tocco delle dita la qualità di un metallo, Captain Nat disegnerà cinque defender imbattibili fra il 1893 e il 1920, utilizzando per primo soluzioni e materiali innovativi come l’acciaio e l’alluminio per risparmiare peso mantenendo solidità.
Sono anche gli anni dello sfide più signorili e sfortunate della storia della Coppa.
A lanciarle è Thomas Lipton, figlio di un droghiere scozzese e divenuto miliardario grazie al talento pubblicitario, all’acquisto di immense piantagioni di té a Ceylon e alla sua commercializzazione in bustine.
Creato baronetto all’alba del nuovo secolo, “Sir Tea” finanzierà ben cinque attacchi alla Coppa con i suoi “Shamrock”, trifoglio in gaelico, senza mai riuscire nell’impresa. Alla costruzione di quegli splendidi vascelli lavorarono William Fife, Charles Nicholson e alcuni dei migliori progettisti del Regno. Uno di questi si chiamava Thomas Pearkes, teniamo a mente il suo nome.
Quando nel 1930 anche l’ultimo arrembaggio fallisce l’ottantenne Lipton si sforza di non piangere e riesce a pronunciare solo poche frasi davanti ai giornalisti.
“Non riesco a vincere…non ci riesco” poi ripete tre volte “Ma proverò ancora” .
Non sarà così.
In segno di rispetto i detentori imbattibili gli regalarono una preziosa coppa in oro di Tiffany, con incise le parole “Al grande sfidante, che fu il più allegro e instancabile incassatore”. Gli Yankee lo avevano accettato e amato ben più della sua patria. Il Royal Yacht Squadron, che gli aveva sempre negato la qualifica di socio a causa della sua origine sociale, gliela concesse solo in punto di morte.
Il trofeo rimane saldamente imbullonato nella sala d’onore del New York Yacht Club e negli anni trenta un ulteriore passo avanti viene fatto per regolarizzare le competizioni. Viene stabilita una formula costruttiva comune, in modo che le gare si svolgano fra imbarcazioni della stessa stazza evitando così i calcoli in tempo compensato. Fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale sarà questa l’era dei mitici J-Class, le più belle barche di tutti i tempi, costose, velocissime, splendenti.
E nel 1934 gli inglesi arrivano a tanto così dalla riconquista. Il magnate e pioniere dell’aviazione Thomas Sopwith lancia due sfide ma è nella prima del 1934 che sfiora il successo. Il suo Endeavour è visibilmente la barca più veloce, vince le prime due regate in una serie al meglio delle sette e nella terza è ancora in vantaggio di oltre sei minuti quando inizia l’ultimo lato del percorso. Al timone del defender Rainbow c’è Harold Vanderbilt, rampollo della ricchissima famiglia che deteneva per la quasi totalità il controllo delle ferrovie statunitensi. La storia racconta che Harold, vistosi ormai perso, si ritirò sottocoperta per un amaro e poco fiero pasto lasciando la ruota a Sherman Hoyt, uno dei più grandi timonieri di tutti i tempi. Sherman era noto per la sua abilità nello scovare il vento anche nelle giornate più difficili, intuendone per primo i cambi di direzione e così fece anche quel giorno. Sopwith è braccato, timona guardandosi continuamente alle spalle e commette l’errore che gli costa la coppa. Invece di puntare dritto al traguardo confidando nel vantaggio decide di virare per marcare stretto l’avversario. Il tempo perso nella manovra e un buco assassino di vento gli sono fatali e la mano magica di Hoyt conduce Rainbow alla vittoria con oltre tre minuti di vantaggio. Endeavour non vincerà più una regata.
Il mito dell’imbattibilità statunitense sui mari cresce e sembra non poter essere scalfito da nessuno. Un altro fantastico progettista prende il posto del Mago di Bristol. Si tratta di Olin Stephens, il maestro dei maestri morto nel 2008 dopo aver veleggiato soavemente oltre il secolo di vita. Passati i novanta era ancora perfettamente in grado di timonare e non era raro vederlo incrociare sottocosta nel Rhode Island.
Le sue barche hanno soluzioni progettuali avanzatissime e due di esse, Ranger nel 1937 e Intrepid nel 1967 e 1970 risultarono così superiori da essere considerate le barche più dominanti nella storia della Coppa.
L’ultimo conflitto mondiale ha polverizzato o drasticamente ridotto i patrimoni delle elites dirigenti e così quando nel 1958 le sfide ricominciano si decide di gareggiare con barche dalle dimensioni più contenute.
Si apre l’epoca dei “Dodici Metri”, detti così non per la dimensione ma dal risultato della formula che ne definisce i limiti costruttivi. Si tratta di barche che raggiungono i venti metri di lunghezza, condotte da equipaggi di dodici marinai. Con una importante novità per gli sfidanti. Da quell’ edizione viene cancellato l’obbligo di recarsi con mezzi propri sul campo di regata. È un dettaglio importantissimo perché consente a tutti i progettisti di puntare sulla leggerezza dei materiali, un fattore decisivo nel match race, la lotta uno contro uno che quasi da subito è stato il tratto distintivo dell’America’s Cup.
Non è più tempo per la vecchia Inghilterra di sognare falliscono altri due tentativi con Sceptre nel 1958 e Sovereign nel 1967 lasciando il campo ad una forza giovane e spensierata, che da sempre ama la competizione dura e leale e possiede la forza di sognare l’impresa prima di compierla. L’Australia è una nazione giovane, come lo erano gli Stati Uniti nel 1851, i suoi abitanti conservano molti tratti distintivi anglosassoni fra i quali l’amore per la vita all’aria aperta e naturalmente per il mare.
Con un’importante distinzione, però. Laggiù la vela non delimita marcati confini sociali come accade in Europa. Navigare è un passatempo molto diffuso ed ognuno è libero di farlo come meglio crede.
È così che nel 1953 comincia anche un ragazzino di sette anni che vive al n°22 di Bristol Avenue, Melbourne, in una casetta che “non avrebbe potuto essere più vicina al mare”. Insieme al fratello grande si procura lo scafo dismesso di una barchetta a motore. Un’asta di sedici piedi per tre pollici di diametro diventa l’albero maestro e la tela di un vecchio paracadute pazientemente ricucita dalla madre si trasforma in una leggerissima vela quadrata. Il ragazzino si chiama John Bertrand, è alto per la sua età, ha occhi chiari che convincono e un carattere tranquillo.
Il nonno è un pescatore di nome Bill Cull, che tutti chiamano Bant. È a lui che si rivolgono tutti perché Bant sa annusare il vento molto prima che arrivi.
E per quanti credono che nulla accade per caso, la nonna Evelyn è figlia di quel Thomas Pearkes che lavorò alla progettazione degli Shamrock di Lipton.
Di lassù il simpatico perdente si mette comodo, alla rivincita non manca poi molto per chi ragiona in termini di eternità.
Le sfide australiane alla Coppa di America si susseguono, nel 1962 Gretel vince clamorosamente due regate però i cinque tentativi seguenti non sembrano mantenere la promessa iniziale. Ma non fu invano, quelle sconfitte ebbero l’effetto di unire e rafforzare il nucleo di uomini che furono poi al centro dell’impresa.
Bertrand aveva aggiunto al dottorato in scienze del MIT il bronzo olimpico di Montreal e le prime esperienze di coppa, ma senza quei due non avrebbe potuto nulla.
Alan Bond metteva i soldi, ma Ben Lexcen ci mise il genio.
Il suo vero nome era Robert Miller, ma lo cambiò in età adulta quando si divise dal socio in affari. Nacque nel 1936 e visse i suoi primi anni al seguito del padre taglialegna nel bush australiano. Abbandonato da entrambi i genitori si stabilisce col nonno frequentando la scuola solo dagli otto ai quattordici anni e lasciandola per diventare apprendista in fonderia. Nulla faceva presagire il suo dono.
Si appassiona alla vela in un laghetto vicino casa, istintivamente lo affascinano le forme di scafi e vele e un compagno di scuola ricorda che era sempre perso a disegnare barche ovunque ignaro di quel che succedeva intorno a lui. Questo autodidatta della progettazione ha la fortuna degli incontri giusti, viene accolto come un figlio in casa della facoltosa famiglia Ryves dove passa giornate intere nella biblioteca, trova libri sulla progettazione di navi e ali d’aereo e uno incredibile che parla delle forme naturali come guida nella creazione di una vela perfetta. È in quel luogo che avviene la formazione di Ben Lexcen, e quelle suggestioni non lo abbandonarono mai. Un giorno cade dall’albero maestro e si spacca la schiena, per alleviare i mesi di immobilità in ospedale il figlio di Ryves gli porta il necessario per disegnare e il risultato è il 18 piedi “Taipan”, che presto prende a vincere regate con un quarto d’ora di vantaggio. La carriera di questo genio goffo, corpulento, ingenuo e sensibile decolla e l’incontro con i milioni e la volontà di conquista di Alan Bond lo catapultano nella Coppa di America, il paese dei balocchi di ogni progettista. Ci vuole esperienza, come in tutte le cose ma nell’estate del 1983 a Newport i frutti della tenacia australiana maturano tutti allo stesso tempo.
Intanto la barca.
Dalla matita di Lexcen esce un vero e proprio prodigio. Lo scafo è aggraziato, venti metri scarsi dipinti di bianco con due eleganti strisce gialle e verdi che corrono per tutta la lunghezza. Corto, leggero ed estremo, perché la barca da regata ideale di Ben era quella che finiva in mille pezzi appena tagliato il traguardo. Un canguro con guanti da boxe pronto allo scontro orna la poppa della sua creazione.
Si chiama Australia II e il suo segreto è sotto il pelo dell’acqua.
L’intuizione vincente di Lexcen è stata quella di dotare il bulbo dell’imbarcazione, la zavorra di ghisa posta alla fine della deriva che impedisce il rovesciamento della barca, di due alette simmetriche. L’idea è quella di diminuire la resistenza dell’acqua migliorando al contempo la stabilità e lo scopo viene raggiunto perfettamente.
Bertrand è molto scettico sulle prime. Come ogni marinaio tende a ragionare in termini conservativi, vuole una barca solida e affidabile ma i primi risultati nella vasca navale olandese dove si svolgono le simulazioni sono strabilianti. Quando poi impugna il timone per la prima volta l’euforia spazza definitivamente ogni paura.
Le reazioni della barca sono sorprendenti, accelera in modo istantaneo ma soprattutto è un fulmine in virata e questo è un vantaggio impagabile nei corpo a corpo che decideranno la Coppa. John ricorda che quel giorno “Ben si trovava da qualche parte fra il ponte della barca e il Settimo Cielo”.
Poi l’equipaggio.
In mare il capitano è secondo solo a Dio e Bertrand deve prendersi la responsabilità delle decisioni finali quando si tratta di eleggere l’equipaggio che dovrà condurre “The Wonder from Down Under” nell’ennesimo assalto alla coppa. E c’è un uomo che lui vuole a tutti i costi al suo fianco, non importa in che ruolo. Si chiama Phil Sidemore, detto “Ya” per il placido intercalare della parlata. Non ha compiti specifici a bordo e Alan Bond non riesce a spiegarsi la sua presenza. “Non ti capisco John,” dice continuamente “non è grosso abbastanza, non è duro abbastanza, non è neanche in forma. Perché?”.
Il motivo è semplice e diventerà chiaro a tutti mesi dopo. Phil Sidemore possiede il talento innato di Bant Cull, sa vedere il vento prima di tutti.
Effettuate le scelte gli uomini si sottopongono ad un allenamento massacrante. Bisogna superare la leggendaria efficienza dei marinai statunitensi, che molte volte aveva salvato la Coppa nelle edizioni precedenti. Issare e ammainare vele in pochi secondi, tesarle alla perfezione, velocità, velocità, velocità.
Poi daccapo e ancora e ancora.
Mentre si avvicina l’estate del 1983 e la cittadina di Newport, Rhode Island, si appresta ad ospitare la ventiseiesima difesa consecutiva della Coppa di America, nel quartier generale americano si parla sempre più insistentemente di una misteriosa barca australiana protetta come Fort Knox. Si dice sia un fulmine e nessuno riesce a vederne la chiglia perché una volta fuori dall’acqua questa viene coperta da lunghi teloni verdi. Bertrand intuisce che la guerra psicologica intorno alla segretezza del progetto può costituire un’arma potente nella lotta che dovrà affrontare e d’accordo col team intensifica l’aura di mistero che circonda Australia II.
Dall’edizione del 1970 in poi il numero crescente di partecipanti aveva reso necessaria l’organizzazione di un calendario di regate preliminari allo scopo di designare lo sfidante ufficiale del defender statunitense. Quell’anno a Newport oltre agli australiani c’erano tutti. Inglesi, Francesi, Canadesi e anche gli italiani di Azzurra. Ma non c’è spazio per nessuno e dopo due mesi di regate in acqua è rimasta una sola imbarcazione. Il suo scafo è bianco con due eleganti righe gialloverdi.
L’ora è scoccata, i tentativi del New York Yacht Club di mettere fuorilegge la barca avversaria si spingono fino al ridicolo e alla fine è la stessa opinione pubblica a volere lo scontro. Il defender scelto dalle severe selezioni americane è Liberty, una barca rossa veloce in tutte le andature con alla ruota del timone Dennis Conner, caschetto in testa e labbra sbiancate da una crema protettiva allo zinco. È un velista eccelso con già due difese vittoriose al suo attivo ma si è fatto montagne di nemici a causa di un carattere imperioso al limite dell’autocrazia.
A settembre comincia la serie finale che prevede sette regate, si vince a quattro.
Conner è un osso duro, i detentori hanno 132 anni di vittorie alle spalle e non sono disposti ad abdicare al trono facilmente. Inaspettatamente Liberty vola sul 2-0 e poi sul 3-1, l’ennesima difesa è ad un solo piccolo passo. L’euforia generale mette in secondo piano il fatto che per ben due volte Australia II ha perso per danni alle attrezzature e nessuno nota che la sola vittoria degli sfidanti ha fatto segnare il distacco maggiore mai patito dai detentori nella storia del trofeo.
Quando nella quinta regata Bertrand anticipa la partenza di un secondo e deve pagare una penalità in termini di tempo il destino della barca aussie sembra segnato ma la fortuna è cieca e a volte restituisce il maltolto. Liberty subisce a sua volta un’avaria alle vele e viene inesorabilmente rimontata.
Gli australiani sono ancora vivi, ora ci credono veramente e pareggiano la serie rimandando tutto alla settima regata. È la prima volta che gli statunitensi vi sono costretti e la tensione di momenti sconosciuti giocherà loro un brutto scherzo.
L’appuntamento decisivo con la storia è fissato per lunedì 26 settembre.
In una giornata di leggero vento instabile e nervi a fior di pelle Dennis Conner getta disperatamente sul piatto della bilancia tutto il peso della sua purissima classe di timoniere e sfruttando un ottimo avvio mantiene la testa con un vantaggio che alla quarta boa del percorso, la penultima, tocca i 57 secondi. Nel quinto lato le barche si lanciano col vento in poppa, Bertrand spreme disperatamente da Australia II ogni nodo di velocità e quando le speranze lo stanno abbandonando una voce tranquilla rompe il silenzio tombale del pozzetto. “Tieniti pronto John, arriverà vento fresco, più forte a sinistra. Siamo nel posto giusto. Rimani dove sei”. Lo skipper non crede alle sue orecchie, per un attimo gli sembra che a parlare sia stato nonno Bant ma quando si gira vede il volto sorridente e rilassato di Phil Sidemore rivolto verso minuscole increspature d’acqua in lontananza. È la chiamata della storia, quando il vento arriva davvero e gonfia lo spinnaker con il canguro Australia II reagisce come un puledro di razza e si mangia la barca rossa. Gira la boa davanti dopo aver recuperato più di un minuto in un lampo e nell’ultima bolina un Conner col sangue alla bocca impegna l’avversario in un duello da oltre cento virate che fa ribollire le acque di Newport ma non cambia la sua amara sorte.
Sarà la sua testa, come recita il truce adagio, a sostituire la coppa nella teca del New York Yacht Club.
Colpo di cannone.
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