Non ci posso credere, l’ha rifatto! Non ci era mai riuscito per tre volte di fila.
Da quando quel dritto incrociato si è stampato sulla riga di Melbourne qualcosa è cambiato.
Roger ha atteso il crepuscolo della carriera, l’età in cui i lineamenti del viso perdono pienezza e le articolazioni si fanno delicate per sconfiggere il suo demone.
Che parla spagnolo e non muore mai.
Questo nuovo Federer vecchio ci urla ancora una volta che nello spietato gioco mentale del tennis, che così bene riflette la vita, dove anche siamo soli a costruirci i nostri cinque set, possiamo sempre fare un passo in più, migliorare. Senza trucco o tattica particolari.
Mi ha mostrato la via e le sue vittorie non rimarranno uniche, lo prometto.
Il mio Rafael Nadal si chiama Gabriele Almasio e non riesco a batterlo.
I prossimi saranno 50 e ho iniziato a giocare “al tenis” come diceva mia nonna nel 1976, l’anno dell’accoppiata Roma-Parigi di Panatta. Racchette di frassino e legni nobili, completini candidi e migliaia di palline da raccogliere chinando il gobbone, non con i comodi tubi a pressione che utilizzano oggi gli allievi 2.0.
Come da manuale ho sfrantegato a forza di dritti e rovesci il muro di casa per nove anni consecutivi, ho attraversato la terra di mezzo passando dal legno alla fibra (Rossignol F200 Carbon, quella di Mats Wilander, gran racchetta!). Poi ho smesso di giocare.
Ho ricominciato qualche anno fa, complice l’istruttore di tennis delle mie figlie.
Le passioni se son tali tornano sempre.
Compro una coppia di Dunlop, spreco un pomeriggio fra tinte della Stabilo Boss per trovare un paio di calzoncini e una maglietta se non bianchi (eresia!), quantomeno di colore primario. Stessa anabasi per un paio di scarpe che non ricordino le astronavi dell’Impero.
Quando devo incordare la racchetta chiedo budello ma il ragazzotto del negozio mi guarda come fosse allo zoo. Capisco che dalla parte sbagliata delle sbarre ci sono io, se sono fortunato mi darà delle noccioline.
Imperterrito si lancia in un’accademica dissertazione sui progressi degli ultimi venticinque anni in fatto di corde. Annaspo, ai miei tempi sceglievi fra tre/quattro possibilità, adesso è una giungla. Mi arrendo, opto per un sintetico monofilamento per interrompere il fiume di sigle e termini tecnici. Mi va di culo, le corde sono ottime.
Il mio micro circolo decide di mettere su una squadretta per partecipare al torneo provinciale Uisp, formula Coppa Davis e aperto fino ai classificati 4.3.
Anche questa evoluzione mi e ignota. Mi spiegano, imparo che adesso più tornei fai più punti totalizzi, a prescindere dalle vittorie. Anni fa era diverso, per classificarti dovevi sconfiggere uno più forte di te. Sia come sia nei primi tornei mi rendo conto che riesco a battermi facilmente contro quasi tutti i “quattro punto qualcosa”. Vinco spesso e gioco meglio di loro, so fare più cose. Sono mancino, il servizio è un vantaggio e ho un dritto naturale, senza troppo lift. Il rovescio è quasi sempre tagliato, lo controllo bene e mi serve alla grande per governare il palleggio o attaccare ma non ho mai acquisito la sicurezza per giocarlo coperto. Amo i lob in topspin e le volée in contropiede, mi piace pensare di possedere una buona mano ma quasi certamente ho solo molta fantasia. Soffro terribilmente il singolare, lotto sempre però quando il match si fa serrato la solitudine diventa insicurezza.
In ogni modo mi diverto e riesco anche a togliermi qualche soddisfazione.
Ma veniamo al tarlo che mi rode.
La squadra c’è, e comprende fra gli altri il sottoscritto e i miei cari Daniele e Massimiliano, gli amici di un decennio abbondante passato fra il campo da tennis e quello da pallacanestro. Ricordo sempre una telefonata tipo dei tempi, non è importante chi dice cosa perché il ruolo del diavolo tentatore ruotava sempre:
“Ciao, cosa fai questo pomeriggio?”
“Dovrei studiare, domani c’è il compito in classe di matematica…”
“Andiamo a giocare a tennis?”
“Va bene, arrivo”
Sempre così, tanto poi si recuperava la notte.
Bei tempi quando si reggevano quei ritmi e si era sempre freschi come fiori di campo…
Daniele è una bestia da singolare, non ha il colpo che chiude ma il punto lo devi fare tu perché ha due gambe da Speedy Gonzales ed è e capace di stare in campo fino all’alba per batterti. Usa ogni mezzo financo la più bieca guerra psicologica, Brad Gilbert sarebbe fiero di lui. Il migliore di noi per spirito combattivo.
Massimiliano ha il più bel dritto piatto che io abbia visto in giro per circoli.
Schizza via come una fucilata e nei giorni di vena non lo sbaglia mai. Passa il metro e novanta, serve prima e seconda al massimo e ha il coraggio di farlo sempre.
Quando si incolla a rete passarlo è un’impresa.
Insieme siamo una gran coppia di doppio perché ci completiamo, io di fioretto e lui di spada.
La squadra è formata da sei elementi per una formula che prevede due singolari e un doppio. Sembrano tanti ma in realtà non è così perché spesso molti non riescono ad essere presenti. Ed infatti in una bigia domenica pomeriggio di qualche novembre fa siamo solo in tre per l’esordio in trasferta, un tale Alberto Pellegatta, che conosceremo al campo, io e Daniele.
Mi passa a prendere lui con la sua Smart e durante il viaggio destinazione Magenta stabiliamo che io e Alberto giocheremo i singoli e Daniele mi affiancherà nel doppio. Dopo quaranta minuti secondo il navigatore dovremmo esserci ma nella nebbia che nasconde il Naviglio non vediamo nessun luogo che ricordi un circolo di tennis. Percorriamo avanti e indietro la stessa strada mentre la voce elettronica ripete “destinazione raggiunta” e a forza di guardare scorgiamo una sagoma nella bruma, è quasi certamente un pallone che copre un campo da tennis ma scordatevi prati verdi e club house.
Una recinzione a rombi verdi circonda quello spiazzo di terreno bruno e incolto, ai margini una piccola costruzione fiocamente illuminata. Bussiamo, entriamo, tavoli accatastati e sedie impilate. Un attempato signore, il maestro del circolo, ci rederguisce perché siamo gli ultimi e ci invita ad entrare in campo. Campo…
Si tratta di terra battuta ma il riscaldamento inesistente crea una condensa che gocciola con regolarità kantiana esattamente sulla rete, creando una pozza per un raggio di mezzo metro intorno. “Giornata da smorzate” mi dico.
Il primo singolare è già cominciato, ci presentiamo al Pellegatta durante la prima pausa di gioco. È simpatico e gentile, gioca con una protezione al ginocchio e picchia sempre, piombando i colpi con tutto il peso del corpo. Il suo avversario è un ragazzo di diciassette anni che non riesce a reggere lo scambio e in due veloci set il primo punto è nostro.
Tocca a me, chiacchiero un poco con il mio avversario. Si chiama Gabriele, è più alto di me e altrettanto magro, ma molto più giovane e gioca con gli occhiali. Gentile e, scoprirò, molto corretto in campo. Nel palleggio cerco di capire chi ho di fronte, lui colpisce sempre in lift e ha un rovescio che sembra molto sicuro. Questo mi preoccupa perché il mio dritto incrociato mancino è un’arma molto efficace ma oggi potrebbe non bastare. Mi sembra impacciato a rete e non gran cosa in battuta, nonostante l’altezza.
Parto bene e vado avanti di un break. Approfitto del fatto che Gabriele rimane sempre inchiodato alla riga di fondo, lo tengo lontano con rovesci profondi e alti top di dritto per poi attaccare in controtempo e chiudere. Sto giocando bene, lui subisce le mie variazioni ed il primo set si conclude con un facile 6-3.
Ed ecco che cominciano i guai. Al cambio campo guardo dalla sua parte e lo vedo ancora carico, per nulla scalfito da quanto era appena accaduto. Io invece credo di aver già vinto.
Smetto di proporre gioco, palleggio rimanendo in presuntuosa attesa che il punto venga a me per diritto divino. Perdo per la prima volta la battuta, Gabriele su questi ritmi non sbaglia mai e i suoi colpi passano la rete con ottimo margine e sempre carichi di spin. La durata dei punti si allunga, io li perdo quasi tutti e in quella ragnatela comincio a stancarmi. Mi sveglio quando sono sotto 0-3 ma ormai la fiducia che manca a me ha attraversato il nastro ed è tutta nel braccio del mio avversario, che addirittura a rete, dove dovrei essere io, pareggia il conto.
Nel set finale il regolamento prevede un tie-break ai nove, con morte istantanea sull’otto pari. E l’aggettivo mi si attaglia perfettamente, perché sento di aver già perso.
Daniele dalla panca cerca di scuotermi con la sua leggendaria grinta ma io ho perso certezze e dopo un’ora e mezza in quella palude comincio ad avere le gambe pesanti.
Sono abbastanza certo che c’entri qualcosa anche il pranzo domenicale in famiglia, pasta al ragù e gli imbattibili peperoni ripieni di papà, ma la verità è che il mio treno è passato e Gabriele vince con pieno merito perché è sempre stato lì con la testa. Bravo.
Poco male per la squadra, in ogni caso. Daniele si carica sulle spalle il mio fantasma in doppio. Vinciamo 2-1.
Quell’anno riusciamo ad arrivare fino alla finale, che perdiamo in casa contro una squadra oggettivamente migliore. Daniele perde solo quel singolare, Massimiliano ed io rimaniamo imbattuti in doppio. L’anno dopo però la coppa sarà nostra.
Passano i mesi, continuo a giocare assiduamente, vinco un paio di tornei in circoli vicini e generalmente riesco sempre a piazzarmi. Poi me lo ritrovo di fronte.
Si gioca sul mio campo, nel mio circolo, sulla gloriosa terra rossa del Tennis Club Trezzano, culla di tutti noi, da poco chiuso per cecità comunale dopo quasi quarant’anni di onorato servizio.
La mattina dell’incontro mi sveglio per tempo, faccio colazione e quando sono in bagno mi accorgo di aver esaurito le lenti a contatto usa e getta. Problema rilevante per chi è una talpa dall’età di dieci anni. Si gioca alle nove, lo stesso orario di apertura dell’ottico che arriva con dieci minuti di ritardo e briciole di brioche sulla barba.
Lo aiuto ad alzare la saracinesca, arraffo quanto mi serve ma per quanti sforzi faccia arrivo in ritardo di mezz’ora. Il terribile Almasio mi attende al campo, avrebbe avuto diritto alla vittoria a tavolino ma dice che lui non fa queste cose.
Il mio rispetto per l’avversario si vena di ammirazione, ma visto come finirà avrei preferito lo scratch.
Mi piacerebbe che tu fossi una brutta persona Gabriele, così potrei odiarti meglio.
Stavolta è peggio. Sono sicuro, ho mesi di consapevolezza che rafforzano le mie convinzioni e so che gioco meglio di lui. Però contro una bestia nera non basta mai!
Chiacchiere amichevoli, palleggio di riscaldamento, prove di battuta e si comincia.
Vado subito sotto di un break ma dal momento dell’1-3 entro in stato di grazia.
Vedo la palla grande come un cocomero, le gambe girano a meraviglia e aggiro bene i suoi colpi chiudendo un paio di dritti inside-out che lo lasciano fermo. Sembro Harry Potter dopo aver bevuto la pozione felix felicis, tutto ciò che desidero si avvera senza sforzo. Preparati terribile Almasio, sarà tremenda vendetta.
Infilo nove giochi consecutivi e stavolta ai cambi campo lui sta a testa china.
Sul 6-3 4-0 in mio favore divoro altre due palle break perché voglio fare il figo e stravincere. Poco male mi dico, solo questione di minuti.
Poi il buio. Ricordo solo che alla pausa non penso più all’incontro ma mi vedo già al bar del circolo a vantare la mia impresa. E non mi accorgo dell’istante in cui mi tramuto da variopinto pavone in pollo arrosto.
Comincio ad aver fretta, sbaglio qualche scelta, arretro aspettando il punto invece di costruirlo e allento la pressione, costringendo lui a crederci ancora. Ed è la fine.
Non vinco più un game, raccolgo solo qualche punto qua e là e in un battito di ciglia sono sotto 8-2 al tie break del terzo. Come un nobile samurai scelgo il suicidio e un doppio fallo mi porta alla stretta di mano. Gli dico ancora “bravo” con l’ultimo fiato che mi rimane ricacciando indietro qualche lacrima di rabbia.
Daniele mi chiama poco dopo per sapere, non ci crede.
“Come fai a perderci sempre? Giochi mille volte meglio, sei come Roger con Rafa”.
Esatto.
Ma domenica 29 gennaio 2017 il dritto incrociato di un attempato svizzero ha cambiato la storia e adesso posso ricominciare a sperare.
Perché Roger Federer siamo noi, e se ce l’ha fatta lui perché non io?
Stai in guardia terribile Almasio, sto arrivando.
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