A prescindere da Roger Federer, che è personaggio sempre, forse anche oltre il dovuto, più che altro per il tono di lode degli innamorati di lui senza obiettività, il personaggio sugli scudi delle ultime settimane, di questa in particolare, è certamente Nick Kyrgios. Battere Novak Djokovic in due partite consecutive e ravvicinate nel tempo, entrambe le volte in due set, non è cosa da tutti, anzi non ci riusciva nessuno dal 2013, quando a farlo fu un certo Rafa Nadal, non proprio un signor nessuno. Sarà anche un Djokovic non più versione “Robonole”, che forse mai tornerà, ma il serbo resta il numero due del mondo e non certo un giocatore che ti regala la partita. Infatti è corretto dire che Kyrgios ha vinto entrambe le sfide, più che Djokovic le abbia perse. Lo confermano anche le statistiche, nessuna palla break concessa dall’australiano nel match di Indian Wells, scontro vinto a suon di servizi e diritti devastanti. Guardando la partita con un occhio approfondito, però, c’è un elemento che pare essere ancora più decisivo dei meravigliosi colpi sopra citati. Quello che ha fatto vincere Kyrgios è il suo linguaggio. Sì, perché i tennisti in campo portano un linguaggio, ampio, non solo verbale, fatto di atteggiamenti, espressioni, lo stesso modo di giocare, la tecnica del gesto, sono un linguaggio. Quante volte, in cronaca, gli addetti ai lavori parlano di linguaggio del corpo, di atteggiamento che fa intravedere vittoria o sconfitta? Quante volte, chiunque abbia calcato un campo da tennis lo sa, si parla di dover vincere in primo luogo la partita nella propria testa, che il tennis è un demone e il primo avversario è dentro di noi?
Infatti, anche nell’interiorità, la realtà vive attraverso il linguaggio, fatto di parole, simboli, immagini. Il linguaggio determina i confini del nostro essere, li amplia o li restringe. Il celebre filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein definiva la filosofia come la materia il cui compito è quello di descrivere il linguaggio, che ha perfetta identità col pensiero (ossia sono la stessa cosa) e che assume moltpelici significati in base alla situazione pragmatica in cui è inserito. Detto in altri termini, il momento reale è fattore determinante per stabilire il suo significato.
Guardando Kyrgios giocare contro Djokovic, la sensazione è stata proprio che l’australiano abbia cambiato il suo linguaggio interiore sul campo da tennis. Sì, proprio quell’aspetto della sua personalità che tanti problemi gli ha creato da quando ha trovato notorietà sconfiggendo Nadal a Wimbledon 2014, mostrando un tennis dalle potenzialità enormi. Solo che il buon Nick è giovane e come in tutti i giovani, alcuni di più, altri di meno, vive un dialogo interiore fatto di contrasti, di momenti di esaltazione seguiti da profondo disinteresse e in questi tre anni ha alternato, come tutti sanno, grandi prestazioni ad atteggiamenti ai limiti del regolamento, sfuriate prive di senso, cosa che in più di una circostanza gli ha fatto essere contro tifosi e addetti ai lavori.
Probabilmente è presto per dire se si tratti di un linguaggio davvero nuovo e vincente o se sia una fase passeggera, ma certo è che l’altra sera l’australiano ricordava molto un recente cavallo pazzo che ha fatto innamorare e patire moltissimi appassionati: Marat Safin. Che i due abbiano dei punti in comune è fuori discussione: due giocatori alti ma agili, estrema facilità nel mescolare potenza e tocco e nel lasciare i colpi e, non ultimo, proprio quella sorta di follia che spesso accompagna i geni, in ogni campo.
Kyrgios negli ottavi ha ricordato quel giovane Marat che noncurante del fatto che dall’altra parte ci fosse Pete Sampras, lo strapazzò nella finale US Open del 2000. Così Nick era incurante che dall’altra parte della rete ci fosse Djokovic. Esattamente come in quel Safin, però, si vedeva non quella sicurezza matura del campione consumato, ma l’incoscienza del giovane, quasi spavalderia, dovuta finalmente alla certezza del proprio tennis. Quello che fino a qui era mancato al talento di Canberra.
Se proseguiamo nel paragone tra i due, potremmo anche dire che l’australiano rappresenta, forse, l’evoluzione del linguaggio giovanile che fu di Safin, con una deriva più negativa. Il russo in qualche modo riusciva ad essere sempre simpatico anche nelle sue sfuriate, cosa che a Nick spesso non riesce. Un po’ come il parallelo tra le ragazzate di vent’anni fa e quelle di cui sentiamo parlare oggi.
Certamente è presto per dire che Nick Kyrgios sia il nuovo Safin, la distanza di risultati, in primis, segna ancora un confine troppo netto e forse è questo l’elemento che ha reso ancor più intollerabili certi suoi atteggiamenti. Perché, questo va sottolineato, quando un tennista è vincente si tende a perdonare di più alcune follie, soprattutto dagli addetti ai lavori.
Possibile che resti un tennista con alti e bassi proprio come è stato il russo, perché quel dialogo interiore, quel linguaggio che ci determina è costitutivo della nostra personalità in maniera essenziale e se l’essere ha quella natura, difficile stravolgerlo, proprio come spiegava Wittgenstein. Se però l’australiano ha trovato finalmente un modo vincente per esprimerlo, benvenuto allora, c’è bisogno di un nuovo campione.
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