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Gli incontri dimenticati: 1933, Jack Crawford annulla la potenza di Vines

Fu una delle migliori finali di Wimbledon mai giocate per emozioni, contrasto di stili, capacità tecniche e atletiche e maestria strategica. È molto probabile, e oltremodo triste, che oggi pochi conoscano i nomi dei due campioni che ottantatré anni or sono lasciarono tutto sull’erba del Centre Court in un incontro che, come si scrisse, vide entrambi vincitori. Ormai si vive in un eterno presente, in molte scuole è comparsa una strana materia chiamata geostoria, una trovata ingegnosa per studiarle male entrambe.
Ma siamo sempre quel che eravamo e ignorarlo fa di noi quasi degli orfani.

Questa malaugurata deriva pervade ormai la nostra vita, e forse si fatica a leggere il futuro proprio perché non sappiamo più da dove arriviamo. Questo è vero anche nel mondo dello sport, in cui titoli e superlativi si sprecano per singoli gesti, una schiacciata, un gol in rovesciata, una inutile smorzata. Tutto il resto è evanescente, sfumato, indistinto. La storia di una squadra, di un campione o la memoria di eventi significativi sembrano non interessare più a nessuno. Non vanno in televisione o su youtube, quindi non esistono. Ma è proprio nelle recondite pieghe del passato che possiamo trovare il senso di quel che cerchiamo, se non proprio precise risposte ai nostri perché.
E per il nostro amato tennis ci prendiamo il lusso di forzare la metafora utilizzata da Eraclito per spiegare la realtà. È certo vero che non possiamo mai bagnarci nella stessa acqua, ma il fiume è sempre lo stesso. E arriva da molto lontano.

L’anno è il 1933. La Grande Depressione del 1929 stritola ormai fra le sue spire l’universo mondo e fra amenità di vario genere come il lancio del marchio Lacoste o l’invenzione del Monopoli la minaccia dei Totalitarismi diventa reale. Mente l’Italia fascista esulta per il titolo mondiale di Primo Carnera e l’Unione Sovietica trema sotto la minaccia delle purghe staliniane, in Germania si stacca il primo sassolino che diventerà valanga con la Seconda Guerra Mondiale.
Il 29 gennaio il presidente della moribonda repubblica di Weimar nomina cancelliere un ometto i cui vaneggiamenti antisemiti nessuno fino a quel momento aveva ritenuto opportuno prendere sul serio. Sono passati solo cinque giorni dalla nomina da parte di Hindenburg quando Adolf Hitler fa emanare un decreto che limita fortemente la libertà di stampa. Ed è solo il primo passo perché dopo neanche un mese la farsa dell’incendio del Reichstag, il parlamento tedesco, fornisce il destro al furher per chiedere i pieni poteri, istituire la legge marziale e cominciare così a svellere dalle fondamenta i deboli istituti democratici tedeschi.

Mentre questo accade un australiano di nome John Herbert (“Jack”) Crawford sta dominando il mondo del tennis con una ferocia pari solo all’eleganza del gioco e delle maniere.
Il sette luglio, quando scende in campo a Londra per la sua terza finale Slam, ha già in testa le corone di Melbourne e Parigi, dove ha massacrato in finale Cochet senza perdere un set.
Jack era nato il 22 marzo 1908 ad Urangeline, sconosciuta località nel Nuovo Galles del Sud, ed è considerato l’ultimo esponente dello stile classico, quello dei fratelli Doherty o di Norman Brookes e Bill Tilden, per intenderci.
Quest’uomo alto, il volto incorniciato da capelli ondulati e il corpo possente fasciato in immacolate flanelle candide si muoveva con grazia ed eleganza nei confini rettangolari di un campo come nelle più esclusive serate di gala. Si scrisse che il suo posto naturale poteva benissimo essere la biblioteca di un avito maniero e le sue impeccabili maniere gli valsero il soprannome di “Gentleman Jack”.
Anche il suo tennis era gentile. E spietato.
Poteva colpire con forza estrema ma il suo gioco privilegiava sempre il piazzamento della palla governando l’avversario a suo piacimento con drive lunghissimi negli angoli uno uguale all’altro. Dalla linea di fondocampo Jack utilizzava gli spazi come su una scacchiera, con mosse incalzanti che raramente prevedevano la chiusura a rete, dove anche era maestro. Il tutto guidato da una mente sopraffina, analitica e creativa allo stesso tempo, che gli consentiva di individuare sempre la via giusta per la vittoria. L’unico suo vero punto debole era l’asma, che cercò sempre di combattere succhiando zollette di zucchero imbevute di whisky e che troppe volte gli impedì di raggiungere vette ancor più elevate.

E se è vero che lo spessore di un impresa si misura soprattutto in base all’avversario che si affronta, lasciatevi raccontare in breve chi fu Ellsworth Vines jr.
Nato a Los Angeles nel 1911 si formò sui campi in cemento californiani ed era un atleta naturale formidabile. Alto un metro e ottantanove, magro e allampanato con l’andatura noncurante e dinoccolata del predestinato, fu una superstar della pallacanestro all’università prima di scegliere la racchetta. La sua soprannaturale coordinazione gli consentì di sprigionare colpi di una potenza sconosciuta fino ad allora. Il servizio fu cronometrato a 128 miglia orarie, quasi dieci più di Tilden e Gonzales, con un movimento che ricordava quello delle spire di un serpente che si prepara ad attaccare. L’anno precedente a Wimbledon il malcapitato Bunny Austin, sua vittima in finale, sull’ace del match point non capì mai se la palla fosse passata alla sua destra o alla sua sinistra.
Lo smash si giovava dell’elevazione sviluppata giocando a basket e il dritto sibilava sempre piatto, sbuffando gesso dalle righe con la marca della pallina perfettamente visibile per l’assenza totale di rotazione. Ellsworth planò sul mondo del tennis non ancora ventenne prendendosi d’imperio i campionati statunitensi del 1931 e ripetendosi l’anno dopo con l’aggiunta di Wimbledon.
Al termine del 1933 passa professionista e pochi anni dopo abbandona la racchetta per impugnare a due mani il bastone da golf. Anche sulle diciotto buche diventerà uno dei più forti. Detiene un record difficilmente eguagliabile perché in entrambe le specialità riuscì a battere il miglior giocatore del mondo, rispettivamente Bill Tilden e Ben Hogan. Pazzesco.
Fu lo stesso Big Bill a certificarne la grandezza dopo un incontro che lo vide soccombere.
Ero stupefatto. Non c’era assolutamente nulla che potessi fare per fermarlo quel giorno. Non riuscivo neanche a vedere la palla, figuriamoci colpirla”.

Questi sono i due giganti che scendono in campo a Wimbledon venerdì 7 luglio 1933 per disputarsi il campionato mondiale ufficioso di tennis. I pronostici sono tutti per il bombardiere statunitense, pochi dubitano della sua vittoria, seppure con maggiore difficoltà rispetto all’anno precedente.
E fra quei pochi c’è lo stesso Crawford, che confida di riuscire a trovare la via per disinnescare le armi atomiche del suo avversario. E quelle oltre due ore di battaglia diventeranno storia del tennis.

Il primo set mette a dura prova la confidenza dell’australiano, dopo due giochi interlocutori infatti Vines aggiusta l’alzo e per i successivi cinque non c’è partita. Aces a valanga e siluri di dritto sui confini bianchi portano a due break sanguinosi e sul 5-2 servizio Stati Uniti pochi possono farsi illusioni sull’esito finale. Ed è proprio nel momento più buio che la maestria strategica di Jack Crawford individua il pertugio che diventerà crepaccio. Con istinto sicuro, e fra lo stupore della folla che teme per la sua incolumità, l’australiano avanza di tre passi buoni dentro il campo mentre attende la prima palla meteoritica del suo avversario. Si fida dei riflessi per riuscire a ribattere in anticipo, bloccando il colpo e sfruttando a suo vantaggio la potenza di Vines per evitare di essere sbattuto in tribuna ad ogni servizio. La palla torna veloce nel suo campo e Vines perde il servizio mentre un “oooh” di meraviglia si diffonde fra il pubblico. È troppo tardi per salvare il set ma Crawford ha trovato la chiave. Alla pausa di fine set sorride con cavalleria e china lievemente il capo rendendo merito all’abilità dello statunitense ma la sicurezza, come balsamo benefico, ha ricominciato a scorrere potente in lui quando si salva da 0-40 nel primo gioco del secondo. È il momento decisivo dell’incontro, entrambi i gladiatori difendono i propri turni con accanimento, Jack guida il punteggio ma deve salvare altre due palle break nell’undicesimo gioco mentre Vines sembra impermeabile alla tensione e pareggia sempre con irridente facilità. L’avvento per esigenze televisive del tie-break ha privato il tennis di quegli equilibri infiniti, che hanno scritto le pagine migliori del nostro sport. Tempo e punteggio scorrono regolari fino al ventesimo game, quando sorprendentemente Crawford rompe per la prima volta nel match il servizio avversario incrinandone le sicurezze. Jack approfitta di qualche seconda palla di troppo per abbandonare gli indugi e attaccare profondo il rovescio avversario. Due volée consecutive magistralmente piazzate “con la mano”, come si suol dire, consegnano all’australiano il pareggio. Vines è sconvolto, la roccaforte del suo gioco è stata violata e i suoi colpi diventano improvvisamente incerti mentre il terzo set scorre via veloce verso il 6-2 che sembra preludere ad una fine inattesa. Ma dopo tre set giocati senza potersi permettere la minima distrazione anche il grande Crawford paga pegno. Precipita indietro troppo in fretta nel quarto ed è ancora una volta la sua testa fredda a guidarlo nella direzione giusta. Lotta giusto il necessario per garantirsi il diritto di servire per primo nel decider e quando allo scoccar delle due ore di gioco si apre il quinto set è pronto per l’arrembaggio finale. I cronisti dell’epoca narrano di un parziale giocato ai limiti della perfezione da entrambi i contendenti, il pubblico che riempie ogni centimetro quadro delle tribune trattiene il fiato ad ogni scambio giocato in un silenzio irreale, come in un teatro.
L’occasione di Vines giunge nel corso del quinto gioco, quando l’ennesimo dritto piatto in risposta lascia immobile Crawford per un 30-40 che sa di sentenza. Ed ecco che Jack, con incosciente leggerezza, sceglie proprio quel momento per l’unico serve and volley dell’intero incontro. Piazza una prima lunga e carica di spin, scatta in avanti e inchioda una facile volée sulla ribattuta incerta di Ellsworth, che con la coda dell’occhio ha visto il suo orizzonte occupato dall’imponente figura dell’avversario. Il campione australiano continua a martellargli il rovescio e nel momento decisivo quel colpo collassa.
Accade nel decimo gioco, Crawford è avanti 5-4 ma tutta la sua abilità non basterebbe comunque contro la battuta più veloce di tutti i tempi. È la sorte a metterci lo zampino perché in quel fatidico momento il grande Vines non riuscirà a piazzare neanche una misera prima palla. Un perfetto lob difensivo che rimbalza all’incrocio delle righe e un rovescio in rete portano Jack sullo 0-30 ma è il colpo seguente ad essere pura magia. Ellsworth è un coraggioso, spara una seconda che sembra una prima e si avventa sulla rete. Crawford intuisce la direzione, accorcia lo spazio con un deciso passo avanti e impatta con taglio ad uscire un cross corto di rovescio che veleggia docile un dito oltre la racchetta protesa dello statunitense per morire lieve nell’angolo opposto. Sono tre palle match consecutive ma basta la prima, perché un Vines ormai scorato affonda in rete l’ultimo rovescio.

Con il terzo titolo in stagione di Crawford nacque il miraggio del Grande Slam, il termine fu coniato infatti apposta per lui da Alan Gould del Reading Eagle. Il giornalista scrisse in un articolo del 18 luglio 1933 che un’eventuale vittoria dell’australiano anche a Forest Hills poteva essere paragonata al grande slam nel bridge, che consiste nel realizzare tutte le tredici prese possibili in una mano.
Jack arrivò ad un passo dall’impresa, condusse due set a uno nella finale newyorkese contro Fred Perry solo per cedere ad un maledetto attacco di asma, l’unico avversario contro cui non poteva trovare contromisure.

07/07/1933
Wimbledon, Londra – Finale

[2] J. Crawford b. [1] E. Vines 4-6 11-9 6-2 2-6 6-4

Raffaello Esposito

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