La parola del Direttore

Ace Cream: il canto di Federer suona la canzone dei numeri uno

“Dopo tutto quello che abbiamo passato, voglio farlo per te. Lo prometto. E dopo tutto ciò che è stato detto e fatto, tu sei la parte di me che non posso lasciare andare”, musica e parole dei Chicago, “Hard To Say I’m Sorry”, la canzone intonata a tre voci (Haas e Dimitrov le altre) che sta facendo il giro del Web. Quali altre note possa toccare uno come Roger, è argomento delicato, reso attuale dalla vittoria di Indian Wells, la quinta in California, più ancora che dal successo nello Slam di gennaio a Melbourne. Quello era sembrato un regalo delle divinità tennistiche, nell’occasione del suo ritorno sulla scena, un premio che il destino aveva tenuto in serbo per l’ultima grande occasione di una carriera irripetibile. Questa rende il quadro decisamente diverso, proietta sul tennis una luminescenza vivida, intensa, se non addirittura abbagliante. Fioccano domande cui non eravamo più abituati. Una su tutte: riuscirà anche a tornare numero uno?

Il primo quarto della stagione è corso via nel suo nome. Solo il suo. Gli altri sono stati eclissati, si sono spenti, si sono limitati finora al piccolo cabotaggio, che non è davvero l’attività più decorosa per campioni di provata  fama. Federer era chiamato a un giro d’onore, un ultimo saluto al suo popolo, che si rivelando molto più vasto di quanto non avessimo immaginato, addirittura sterminato. Ma la passerella si è già trasformata in una corsa solitaria, insistente, quasi furiosa, nella quale non c’è spazio per intromissioni. Vince lui, operando sorpassi spericolati all’ultimo set come in Australia, o tenendo a distanza gli avversari, com’è successonel caldo terrificante della California. Tre tornei giocati, due vittorie che valgono tremila punti in classifica, quattordici match vinti, una sola sconfitta (a Dubai, con Donskoy) che è sembrata più una distrazione. Non è il festoso congedo di un campione, è qualcosa di più, qualcosa di estremamente serio.

Si tratta di una navigazione a vista, nessuno può dire quanto a lungo potrà proseguire né quali ostacoli si paleseranno. Nemmeno lui, che infatti ci va cauto. «Se il mio corpo mi sostiene, sarò ancora qui con voi l’anno prossimo», dice ai fans di Indian Wells. «Non so fin dove mi potrò spingere», aveva avvisato i tifosi australiani carichi di lucciconi per la sua impresa. Una condizione nuova, per un giocatore che gli anni hanno reso estremamente organizzato. Ma che Roger sta vivendo con quella inesausta voglia di misurarsi che è parte indispensabile del bagaglio dei campioni. Si è allenato per sei mesi, non lo faceva ormai da anni, e anche questa è una novità. Con tatto, l’amico Ljubicic lo ha convinto ad affrontare i match con una visuale rinnovata, lasciando andare i colpi, senza remore né eccessivi tatticismi. Nasce da questi consigli il rovescio piatto che ha sfiancato Nadal, e lo ha costretto a due rese consecutive, tre addirittura con l’ormai antica vittoria a Basilea 2015.

È un Federer nuovo, e merita l’apertura di un capitolo a parte, nel quale appuntare solo considerazioni attuali, scisse da ciò che è stato, da ciò che ha vinto e da quanto ci ha fatto godere. Qualsiasi altro tennista che in avvio di stagione si fosse arrampicato sull’Open d’Australia, poi avesse vinto Indian Wells senza smarrire un solo set, avrebbe ricevuto salve di elogi, e avremmo parlato di dominio. Vogliamo privare Federer di simili attestati? Ma tutto ciò risponde solo in parte alla domanda (le domande, forse) che i fans più caldi si pongono. La storia del numero uno, per esempio… Con tre mila punti nei primi tre mesi (e aspettiamo Miami) la proiezione supera i 12 mila punti, che è la cifra giusta per governare, la stessa al momento in possesso di Murray (12.005). Ma questi, lo sapete, sono discorsi che lasciano il tempo che trovano. Per dare la scalata alla vetta occorrono vittorie continue e avversari che te le permettano. Al momento i due elementi coesistono, Federer vince (ha battuto quattro top ten in Australia, due a Indian Wells), gli altri hanno rallentato, non di poco. Djokovic non gioca Miami (gomito dolente) e da 8,915 punti scenderà a 7.915, Murray anche si farà da parte ma per lui la perdita è irrilevante (45 punti). Federer ha invece la strada sgombra, per quasi tutto l’anno. Unica, vera tassa, la semifinale di Wimbledon (720 punti), il resto sono briciole: dovrà scalare 180 punti a Monte-Carlo, 90 a Roma, 180 ad Halle e 90 a Stoccarda. Da qui a Wimbledon, Murray ha in ballo 5.205 punti, Djokovic 4.700. E sono cavoli…

Ci sono dei “ma”, ovviamente… Federer ha programmato la stagione fino a Miami, e ha fissato gli appuntamenti sull’erba, che saranno Halle e Stoccarda prima di Wimbledon. Non si è espresso in termini altrettanto precisi, né desiderosi, per i mesi sulla terra rossa, e ha lasciato la parte finale della stagione agli uzzoli del momento (ma di sicuro sarà al Masters, dato che è quasi già qualificato). La terra è ormai faticosa, per lui, e l’affronta senza speranze di vittorie, tranne forse a Madrid, dove la palla corre un po’ di più. C’è il timore di non vederlo a Roma, e Monte-Carlo arriva un po’ troppo presto, per uno che quest’anno ha voluto giocare anche a Miami (saltato nel 2015 e nel 2016). Potrebbe limitare la scelta a Madrid e Parigi, ma finirebbe anche per dare un taglio alle speranze (se davvero le coltiva) di tornare in vetta. Senza punti sulla terra rossa, non si va lontano. E lui lo sa.

Daniele Azzolini

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