Per oltre vent’anni il campione di Wimbledon fu certo in cuor suo di non essere il miglior tennista del mondo. Il vero sovrano non era lì, anche se nessuno sapeva con precisione dove si trovasse.
Forse dormiva sul sedile di un’automobile o nella cuccetta di un treno diretto verso un’altra città, con la corte al seguito. Gli stessi che sera dopo sera l’avrebbero impegnato in altre battaglie e in nuove prove di valore, su un campo da tennis di legno o tela montato in poche ore, sotto luci artificiali lontane mille miglia dal sole di Parigi in primavera, di fronte a migliaia di spettatori che preferivano la lotta ad un rovescio down the line.
Loro erano i Pro, i soli, i dimenticati, lontano dal bel mondo del tennis ufficiale e dalle prime pagine dei giornali. Ma i migliori con una racchetta in mano.
Il circuito dei professionisti esisteva da tempo ma la Grande Guerra aveva cambiato tutto. Ora i tennisti non sono più solo espressione di una ristretta classe privilegiata che vive il gioco come breve intermezzo ludico fra l’università e il mondo degli affari. Ellsworth Vines, Fred Perry, Don Budge e Bobby Riggs vengono dalla working class, vogliono affermarsi e il loro talento nel colpire una pallina è la via per farlo. Fra il 1930 e il 1939 tutti e quattro passano pro dopo aver fatto incetta di Slam e Davis. Tutti e quattro nel fiore dei loro vent’anni.
Al termine del secondo conflitto mondiale il circuito dei professionisti diventa grande. Jack Harris è il primo vero promoter che si dedica totalmente all’organizzazione di un calendario completo di serate, che porterà il vero tennis in tutte le arene del mondo. Tranne quattro.
E in una data e un luogo precisi tutto comincia.
È dall’inizio del mese che la scritta campeggia sul frontone del Madison Square Garden, ma quel 26 dicembre 1947 è cambiata, ora è enorme:
“PRO TENNIS TONIGHT, RIGGS VS KRAMER”
Chi ama il gioco del diavolo li conosce bene.
Può uno scrittore ignorare Dante o un matematico Euclide?
Robert Larimore Riggs di Altadena, California, è uno dei più forti tennisti di sempre, e forse il più intelligente. Non sorretto da un fisico dominante, il piccolo Bobby serviva con cento effetti diversi e sapeva fare tutto benissimo su un campo con i corridoi. Padroneggiava qualunque colpo, ogni traiettoria. Ribatteva d’anticipo, era capace di palleggiare allo sfinimento per poi smorzare e lasciarti con un palmo di naso. Se eri un attaccante poteva passarti a suo piacimento, oppure prendere la rete lui per primo. In un modo o nell’altro eri fregato.
Un vincente nato, che condivise la sua epoca con l’immenso Budge, il primo a realizzare il Grande Slam nel 1938, senza rimanerne schiacciato. Perché Bobby trovava sempre un pertugio, un punto debole da usare come leva e alla fine riuscì a trovare il modo di batterlo. Una delle personalità più affascinanti del mondo sportivo tout court, oltre che un incallito giocatore d’azzardo.
Prima dell’inizio del torneo puntò sulla sua tripla corona (singolo, doppio e misto) di Wimbledon 1939, intascando una piccola fortuna. Scommetteva su tutto e vinceva sempre.
Quando smise con il tennis prese a frequentare i golf club dove i dollari passavano di mano ad ogni buca. Un paradiso per uno come lui. Il tennis continuò ad essere fonte di reddito attraverso sfide improbabili, con un cane attaccato alla gamba contro il campione del circolo o battendosi con Billie Jean King nel 1973, quando si inventò La battaglia dei Sessi perché era a corto di denaro. Perse netto all’Astrodome di Houston ma vinse ancora, aveva puntato forte contro sé stesso!
“Never bet against this man” titolò Sports Illustrated quell’anno, un buon consiglio.
John Albert “Jack” Kramer non nacque in California ma in quei luoghi si stabilì presto la sua famiglia. Era del 1921, tre anni più giovane di Riggs.
Un all american boy, alto, forte e deciso, con un’incredibile etica del lavoro.
Quando sceglie il tennis abbandonando gli studi spezza il cuore al padre. Si trasferisce al Los Angeles Tennis Club, il posto migliore del mondo per diventare un campione. Tutte le grandi speranze del tennis USA sono lì, la concorrenza e’ spietata e quei giovanotti hanno sempre modo di scambiare due colpi con gente come Vines, Budge o lo stesso Riggs, del quale diventa amico. A quindici anni vince un set contro Tilden.
Kramer trasforma il gioco in una battaglia di grossi calibri. La sua prima palla e’ fra le cinque migliori di sempre, la seconda viaggia uguale. Dritto e rovescio sono pesantissimi e si portano dietro il peso di un corpo da granatiere. Non fu tanto l’attacco della rete che rivoluzionò il gioco, quanto il farlo dietro a colpi che erano vere e proprie bombe. Per lui si coniò l’espressione Big Game ma Jack si definì sempre un “giocatore percentuale”, uno che sceglieva sempre la soluzione più conveniente in base al momento, senza lasciarsi distrarre dal superfluo o sprecare energie per l’inutile. Attaccare sempre lungolinea il rovescio avversario per costringerlo al passante più difficile, difendere ad ogni costo il servizio, dare tutto in risposta solo quando il punteggio è favorevole. E mille altri accorgimenti che misero a punto il tennis più devastante che si fosse mai visto. Non vinse molto, la guerra gli tolse di fatto cinque anni di potenziali vittorie ma fra il ’46 e il ’47 un solo nome campeggiava sulle pagine dei giornali dedicate al tennis. Il suo.
Trionfa su entrambe le sponde dell’Atlantico e guida gli Stati Uniti alla doppietta Davis. Wimbledon 1946 gli sfugge a causa di una mano piagata contro Drobny, comunque non l’ultimo arrivato, ma l’anno dopo non ce n’è per nessuno. Vince il torneo con facilità irrisoria, la finale contro Tom Brown dura 47 minuti, neanche il tempo di macchiare la T-shirt girocollo da marine. Ma non è più un giovanotto. Si è sposato tre anni prima con Gloria, è nato il primo figlio e con il tennis amatoriale le prospettive di guadagno non esistono.
Il 13 novembre 1947 Jack Kramer scompare dai radar del tennis ufficiale, passa fra i professionisti e ne sarà la trave portante, prima come imbattuto detentore poi come promoter, fino a metà degli anni Sessanta. L’epoca d’oro.
Firma con Harris un contratto per un garantito di 50.000 dollari più una percentuale sugli incassi. Disputerà un lungo tour come sfidante del campione in carica Bobby Riggs, che l’anno precedente aveva detronizzato Budge.
Si parte dalla Grande Mela la sera di Santo Stefano del 1947. E sarà un battesimo di giaccio bollente.
Benjamin Parry è il capo metereologo della stazione di New York e quella mattina si è svegliato presto. Alle cinque e mezza del mattino comincia a nevicare. Non c’è vento, nella tarda mattinata le strade della città sono già coperte da circa quaranta centimetri di manto bianco, che continua a cadere copioso. Arriverà al metro e venti nel pomeriggio. Il traffico in tilt, molti rami della metropolitana bloccati, con l’andare del tempo i cittadini mollano le automobili in mezzo alla strada e se ne vanno a piedi.
Jack Harris guarda preoccupato la scena dalla sua finestra del Lexington Hotel, se continua così sarà costretto a rimborsare i biglietti. Per la serata c’è il tutto esaurito, si rischia il tracollo ancor prima di cominciare. Nella stanza di fronte i due contendenti ingannano la tensione. Bobby fa un solitario a carte, Jack legge il giornale. A loro non importa del tempo, sono professionisti e all’ora convenuta ci saranno. Ma come?
La circolazione è bloccata e allora Riggs e Kramer, i migliori tennisti del tempo, idoli delle folle, cacciano racchette e abbigliamento in capienti borsoni e scendono. Percorrono su strade deserte i sei isolati che separano l’hotel dal campo di canvas verde teso come un panno da biliardo che li attende.
“Sembrava una spedizione al Polo Sud” è il ricordo di Kramer.
Impossibile che qualcuno possa arrivare.
Poi pian piano, a gruppi sparuti via via più numerosi, molti scaricati lì dalla linea Indipendent (l’unica attiva), altri a piedi, qualcuno con gli sci o le racchette da neve, arrivano oltre sedicimila persone, sedicimilazerocinquantadue per la precisione, perché ognuno di loro merita di essere ricordato.
Nessuno tornerà a casa prima dell’alba.
Il giorno dopo sul New York Daily News Gene Ward li omaggiò con queste parole:
“It was the greatest tribute to an indoor athletic event in the history of sport”.
Nella pancia dello stadio, seduto sulla panca di pino dello spogliatoio, Bobby Riggs è fiducioso. Convinto di poter maneggiare la maggior potenza dell’avversario, prevede di riuscire a strappargli il servizio almeno una volta a set e comandare così il punteggio. Kramer, seduto di fronte, non è da meno, “sarei sorpreso di perdere, ho un gioco più potente e il miglior servizio”.
Quando i due amici entrano in campo spalancano gli occhi.
I giudici di linea e l’arbitro sono in abito da sera, la folla trabocca dagli spalti.
“Come diavolo sono arrivati fin qui?” pensa Jack mentre volge lo sguardo intorno.
Si comincia, e Kramer assaggia il duro pane del mondo Pro.
Un’arena coperta è un altro mondo rispetto al Centrale di Wimbledon, la palla schizza via come sul ghiaccio, quando non incoccia in una piega del tessuto, e le luci artificiali non lo favoriscono. Bobby al contrario conosce da anni quella realtà e parte ventre a terra. Gioca morbido col suo gran tocco, manda fuori ritmo l’arsenale di Jack e lo anticipa costantemente a rete. Scappa avanti 3-0 e poco dopo intasca il parziale con un netto 6-2.
Il secondo set è decisivo.
Kramer ha sciolto il braccio, il servizio prende a funzionare e anche gli errori diminuiscono. Ora è Riggs sotto pressione, non riesce più a incidere in risposta e nel nono gioco sfiora il baratro, riuscendo avventurosamente a salvarsi da un pericolosissimo 15-40. Bobby segue il suo infallibile istinto, che gli suggerisce di tenere la palla in gioco, alternando peso ed effetti. Difende il servizio, molto più sicuro e incisivo di quel che si pensi, e aspetta l’apertura giusta. Alla lunga la strategia si rivela perfetta e Kramer crolla di schianto al diciottesimo gioco, perdendo battuta e set a zero da solo. Due doppi falli e due errori di metri in palleggio.
Comodamente avanti, Riggs si è concesso un attimo di rilassamento proprio nel momento migliore del suo avversario, che sembra aver finalmente preso le misure del campo. Due gran passanti, lungolinea seguito da cross stretto, consegnano alla mortifera prima palla di Jack il terzo set. È lei a chiudere il 6-4 con due aces.
L’incontro adesso è in bilico ma la forza mentale di Bobby fa la differenza. Torna ad addormentare il gioco per contenere la foga dello sfidante, concede un altro break nel primo gioco del quarto ma pochi minuti dopo il punteggio è sul due pari. La pressione di Jack si allenta con l’andare del tempo, soprattutto perché l’altro lo costringe a sudarsi ogni singolo punto. Si seguono i servizi fino al 5-4, quando il break decisivo di Riggs pianta l’ultima banderilla sulla schiena di un esausto Kramer.
Ma sa bene che il suo tempo è giunto. Il nuovo kid è di mente lesta, impara in fretta e presto Bobby non sarà più in grado di tenerne il ritmo. A fine tour Kramer si prende d’imperio il titolo di campione con 69 vittorie e 20 sconfitte. E non lo cederà mai.
Ma per quell’ultima notte Bobby è ancora il re, un re doppiamente felice.
Poco prima dell’inizio aveva scommesso su una sua vittoria in quattro set…
26/12/1947
Madison Square Garden, New York
B. Riggs b. J. Kramer 6-2 10-8 4-6 6-4
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