Iersera mia moglie ed io abbiamo avuto gente a cena e sapete come succede.
Vini freschi, un bicchiere tira l’altro e l’atmosfera si è fatta allegra. Quando verso l’una di notte riesco a sbattere i graditi ospiti fuori di casa mi svesto e mi stendo un attimo sul divano. Quell’attimo mi è fatale. L’ultimo pensiero cosciente vaga fra Basilea e Manacor. Rispetto infinitamente un campione come Rafa ma Roger per me è un’altra cosa. Forse perché ho imparato a giocare con le racchette di legno, in un tempo nel quale gli istruttori ti insegnavano a fare tutto ma ho sempre amato il tennis creativo più di quello utilitaristico. Più McEnroe che Borg, insomma. A prescindere, come diceva Totò, dal numero di vittorie.
Improvvisamente sono a bordo campo, non capisco com’è possibile ma mi trovo nel pieno della Rod Laver Arena in pigiama, dietro il seggiolone dell’arbitro. Rimango immobile per un lungo minuto in attesa che i miei battiti si diano una calmata poi mi guardo intorno. La scena è di una nitidezza innaturale, vedo distintamente i volti carichi di attesa di ogni singolo spettatore, i rispettivi clan, i soloni del tennis in tribuna stampa. Un boato squarcia il brusio monotono della folla quando Roger e Rafael entrano in campo, vengono verso di me senza vedermi, e sì che il mio completo a scacchi dovrebbe spiccare. Non ho il coraggio di muovere un muscolo, il corpo rigido nell’attesa del momento in cui qualcuno mi trascinerà via in malo modo fra le risate generali. Gli australiani sono buoni e cari ma quando gli girano… Ma nulla accade. Assisto al sorteggio, poi al riscaldamento, Ad un certo punto il giudice arbitro mi trapassa con lo sguardo, dice qualcosa ad un raccattapalle dietro di me e si volta come nulla fosse. Continuo a non capire poi comincio a rilassarmi lentamente, dalle punte dei piedi, alle cosce, fino alle spalle. Ho un’intuizione, ci provo. Caccio un urlo a pieni polmoni ma nessuno si gira. Non esisto. Che succede?
Inizia la partita e smetto di pensare, per le domande ci sarà tempo dopo. Comincio a guardare e non credo ai miei occhi. Roger ha dovuto attendere le rughe dei trentacinque anni per non soffrire più le traiettorie mancine del diavolo spagnolo, forse nei mesi di inattività ha allenato il rovescio come fece Bill Tilden, sta di fatto che la diagonale mortale non lo infastidisce più. Ma c’è qualcos’altro che va oltre il fatto tecnico. Sono gli occhi. Quante volte in passato era stato facile cogliere come sarebbe andata semplicemente dalle pupille. Rabbia contro timore, decisione contro sconforto. Oggi non è così. Federer aggredisce ogni avversità con lucido coraggio, annulla palle break con gli aces e concretizza quelle a suo favore. Il mostro oltre il net non fa più paura. Ora è lo svizzero ad avere gli occhi della tigre, Nadal è chiuso all’angolo e ridotto all’impotenza con le sue stesse armi. Non ho più paura, né mi frega nulla di quel che può succedere. Mi godo il miracolo che scorre davanti ai miei occhi, che sembra uscito direttamente dalla penna del più bravo sceneggiatore di Hollywood.
Il fiele del 2009 sta per diventare miele.
Poi mi sveglio.
Mal di schiena, gambe che formicolano perché il gatto ci ha dormito sopra, occhi cisposi, bocca riarsa. “Peccato, è stato bello” penso mentre accendo il televisore. Quando vedo Roger sotto nel quinto che si mangia pantagruelicamente una palla break dietro l’altra so già tutto. Poi d’improvviso la realtà supera il sogno e l’impossibile si compie sotto i miei occhi increduli da uomo di poca fede.
Tutto sommato è valsa la pena soffrire per anni, se la ricompensa è questa.
Grazie Roger, chapeau Rafa. E benvenuti nella leggenda.
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