Il ritorno del Re
Passato presente e futuro di Federer
Ieri
A Parigi il sole era ormai vicino al tramonto e in un sabato pomeriggio di fine maggio usciva sconfitto dal campo il numero 1 del mondo, Roger Federer. Il pubblico era in delirio come sette anni prima. «Goooooo-ga! Gooooo-ga!» ripetevano a voce sempre più forte i parigini, estasiati dalla vittoria del loro beniamino, che tre anni prima aveva disegnato un cuore sulla terra rossa per suggellare con un segno potente ed effimero il suo speciale legame con Parigi. Il Roland Garros lo aveva incoronato re tre volte perché una non era sufficiente per tanta bellezza. Non arriverà la quarta, perché Guga perderà nei quarti di finale con David Nalbandian, argentino, in uno dei tanti derby sudamericani di quel torneo.
Il pubblico di Parigi, quel sabato non sapeva nulla di tutto questo, ma solo che la testa di serie numero 28, il 28enne Gustavo Kuerten, ormai avviato al declino tennistico, era riuscito a risorgere all’improvviso contro la testa di serie numero 1, il nuovo Sampras, il dominatore del circuito, il 22enne Roger Federer. E tanto bastava per esultare e rallegrarsi con quel brasiliano dalle fossette che ti conquistavano subito e dal rovescio divino che ti lasciava a bocca aperta. Pare ci sia un ragazzino molto promettente che lo tira uguale uguale, si mormora sugli spalti, forse era pure in tabellone quest’anno, come no, ha perso con Nalbandian in tre set al primo turno, ma l’ha fatto sudare, vedrete se non diventerà numero 1 tra un paio d’anni. Gasquet, mi pare si chiami.
Nessuno, insomma, si preoccupava dello sconfitto, di Roger Federer. Ha già vinto uno Slam quest’anno: dovrebbe bastargli, no? Invece lo svizzero si considerava perfino il favorito del torneo e a ben vedere, essendo il numero 1 del mondo, non aveva nemmeno tutti i torti. Ma al Roland Garros questo tennista dal dritto terrificante e dal rovescio sublime non è mai andato granché bene, almeno non come ci si aspetterebbe da uno come lui, che sembra poter eccellere su ogni superficie.
È pur vero che tre anni prima, quando Guga stava per festeggiare il suo terzo Slam, era arrivato ai quarti di finale, un po’ per fortuna, un po’ per bravura. Nei due anni successivi, però, quando aveva già battuto Sampras a Wimbledon e non poteva più nascondersi dalle fastidiose attenzioni di pubblico e stampa, aveva perso al primo turno contro un tennista marocchino e uno peruviano. Sei set persi, zero vinti: Federer era già top 10, aveva vinto un Masters Series su terra battuta, eppure al Roland Garros lo svizzero sembrava costretto a fare soltanto brutte figure.
Nel 2004 le cose dovevano andare diversamente. Del resto, Federer aveva già vinto due Slam, una Tennis Masters Cup, era diventato numero 1 del mondo. I primi due turni del Roland Garros erano andati lisci, stavolta, e contro Vliegen e Kiefer aveva perso diciotto game in sei set, le classiche briciole. Contro Gustavo Kuerten il favorito era lui: aveva vinto l’unico precedente sulla terra battuta, ad Amburgo, e due settimane prima aveva vinto di nuovo il torneo di Amburgo, battendo Moyá, Hewitt e Coria negli ultimi tre turni e perdendo appena un set.
Al primo turno, invece, aveva dovuto sudare più del dovuto contro un argentino minuto e combattivo, Gaston Gaudio. Federer lo aveva battuto solo per 6-4 al terzo e chissà cosa deve aver pensato quando alla fine era andato a stringere la mano al suo avversario; di sicuro, non poteva pensare che quello stesso argentino avrebbe vinto il Roland Garros un mese dopo, mentre lui avrebbe dovuto rinviare di almeno dodici mesi l’appuntamento con la Coppa dei Moschettieri.
«Fa molto male. Perdere a Parigi non è stato niente di che, perdere qui è un disastro» (7 luglio 2008, dopo aver perso la finale di Wimbledon contro Rafael Nadal)
«Penso che oggi il mio gioco abbia molto risentito del suo, di gioco. Di solito riesco ad avere il controllo di partite come queste. Oggi non ci sono riuscito. È stato merito suo. Non dirò che il rovescio, il dritto o il footwork non hanno funzionato. Lo sappiamo tutti che non erano al meglio, ma è qualcosa che ha che fare con il mio avversario». Per chi imparerà a conoscere Federer nel corso degli anni, le sue parole dopo la sconfitta con Kuerten possono sembrare quasi sorprendenti. Quante volte lo abbiamo sentito fare complimenti stiracchiati, densi di quella rabbia orgogliosa che solo i numero 1 non riescono mai a nascondere?
Ma il 6-4 6-4 6-4 con cui Kuerten lo eliminò non era discutibile. Kuerten, che aveva sei anni e tre Roland Garros in più, si muoveva sulla terra battuta molto più agilmente del suo avversario. Federer, invece, per tutta la partita aveva faticato a trovare la posizione ideale per far partire quei colpi che già facevano sospirare mezzo mondo. Quattro settimane dopo Wimbledon spazzò via ogni dubbio sulla legittimità della sua posizione. Ma dovrà passare molto tempo prima che Federer possa saldare il conto con Parigi.
Un altro pomeriggio di fine primavera al Roland Garros, questa volta ad inizio giugno. L’aria era umida, visto che aveva piovuto per quasi tutto il pomeriggio. Erano cambiate tantissime cose, da quella partita con Gustavo Kuerten, al terzo turno del Roland Garros 2004. Non tutte: Richard Gasquet, per esempio, era stato sconfitto di nuovo al primo turno, anche se in una maniera molto più dolorosa, visto che il ragazzino, ormai 24enne, era andato avanti di due set contro Andy Murray. Anche stavolta, però, quel delizioso rovescio ad una mano, che sembrava tale e quale a quello di Kuerten, si era dovuto fermare al primo turno. Roger Federer, invece, aveva passato incolume i primi quattro turni del torneo di cui era campione in carica, vincendo dodici set e perdendone zero. Il tredicesimo era arrivato con un veloce 6-3, poco prima che la sottile e insistente pioggia di Parigi interrompesse il gioco. Quando le nuvole, finalmente, se n’erano andate, erano tornati in campo lui e Robin Söderling, ossia quello che l’anno prima era riuscito a fare ciò che nessun altro, Federer compreso, era mai riuscito a fare: battere Rafael Nadal sul Philippe Chatrier.
Federer era il campione in carica anche degli Australian Open, esattamente come nel 2004, ed era tornato al numero 1 l’estate prima, dopo aver coronato il sogno del Roland Garros ed essersi ripreso il trono a Wimbledon, nella più classica delle restaurazioni. Robin Söderling, invece, non era soltanto quello che aveva battuto Nadal al Roland Garros, ma tutti già allora si ricordavano solo di quella partita. Quell’anno le cose stavano andando piuttosto bene: aveva raggiunto la semifinale a Indian Wells e Miami e nonostante qualche sconfitta inaspettata sembrava pronto ad una buona stagione sulla terra battuta. Ma al di là della finale di Barcellona, lo svedese aveva deluso sia a Roma che a Madrid, ossia le prove generali per il Roland Garros. Arrivato ai quarti di finale contro Roger Federer, sembrava non ci fossero chance per lui, visto che in dodici incontri aveva vinto la miseria di due set.
Ma sotto il cielo plumbeo di Parigi, dopo l’interruzione per pioggia, Söderling ritrovò improvvisamente sé stesso e vinse in quattro set, eliminando il campione in carica esattamente come dodici mesi prima. La sconfitta di Federer, che perse anche il numero 1 a fine torneo, fu simbolica soprattutto per un motivo. O meglio, per un numero, il ventitré: per la prima volta dal Roland Garros 2004, quello di Kuerten, lo svizzero veniva eliminato prima della semifinale in un torneo del Grande Slam. Ventitré tornei, ventitré semifinali. Di quelle semifinali, Federer ne aveva vinte venti. Delle venti finali giocate, ne aveva vinte quattordici. Fu un lungo periodo, clamoroso e irripetibile, di superiorità e di costanza: Federer tra gli ultimi quattro del torneo fu una certezza per quasi sei anni, un assioma attorno al quale ruotava tutto il circuito, spesso succube dell’ombra di questo implacabile dittatore.
Fu uno svedese dallo sguardo truce ed enigmatico a spezzare di nuovo l’incantesimo. L’anno prima, battendo Nadal agli ottavi, aveva permesso a Federer di chiudere il cerchio e prendersi l’ultimo Slam che gli mancava; dodici mesi dopo, Söderling interruppe la striscia di ventitré semifinali consecutive, e perdendo di nuovo in finale al Roland Garros, certificò il controsorpasso di Nadal nel ranking. Quasi a voler sconfessare chi aveva sempre sostenuto che fosse uno che mal accettava le sconfitte, lo svizzero non si rammaricò troppo, proprio come aveva fatto contro Kuerten sei anni prima: «Sono deluso fino ad un certo punto. Non penso di aver giocato male, ma lui oggi se n’è venuto fuori con del gran tennis. È molto più facile digerire la sconfitta in questa maniera».
«Una cosa è sicura, non mi fermerò a 13. Sarebbe terribile» (9 settembre 2008, dopo aver vinto il quinto US Open consecutivo e il tredicesimo complessivo)
Fu probabilmente molto meno facile da digerire la sconfitta con Berdych nei quarti di Wimbledon, come se l’interruzione della striscia avesse reso quasi inutile continuare ad arrivare in semifinale. Il 2010, che si chiuse con la vittoria del Masters contro la nemesi Nadal, fu il capitolo finale di una lunga parentesi fatta di tantissime vittorie e di pochissime sconfitte. Talmente poche che le si possono ricordare tutte, con un po’ di sforzo. Quelle con Gustavo Kuerten e Robin Söderling nello Slam sono sconfitte simboliche. Magari non le più celebri, di sicuro quelle che hanno avviato e chiuso la fase dominante della carriera di Roger Federer. Da Parigi a Parigi, la città che più ha fatto commuovere l’implacabile svizzero, Federer è stato per sei anni un dominatore senza eguali, capace di alzare l’asticella della competizione in un modo che non si era mai visto prima di allora.
Dopo il 2010, cominciò una nuova era, la terza, nella carriera di Roger Federer. Fu un’era meno gloriosa, per forza di cose. E così, nel corso degli ultimi anni sono arrivate tante prime volte, per colui che aveva dominato il circuito senza interruzioni, o quasi: il primo anno senza Slam, cioè il 2011, poi la prima volta fuori dalla top 5 e il primo anno senza finali Slam, nel 2013, e infine, storia recente, il primo Slam senza Roger Federer tra i 128 partecipanti.
Verrebbe da dire che la terza era di Roger Federer è stata anche quella più umana, quella in cui sono venute fuori in maniera più palese quelle debolezze che in tempi migliori erano una consolazione a cui aggrapparsi durante un dominio che annichiliva qualsiasi opposizione. E pure i suoi critici più spietati scoprirono finalmente la dimensione umana di questo campione. Peccato che fossero in grave ritardo: bastava vedere le sue esitazioni dei bei tempi in quelle rare volte in cui il match si allungava, o le lacrime di frustrazione in Australia nel 2009, o la racchetta spaccata a Miami qualche settimana dopo, per capire che quel tennista, anche se giocava come nessuno, perfino al suo acme era esattamente come tutti noi quando non riusciamo ad ottenere ciò che vogliamo: capriccioso, indisponente, irragionevole. Umano.
In realtà, il Roger Federer che abbiamo visto dal 2011 al 2016, quello che ha vinto uno Slam su ventidue, è forse quello più divino e inspiegabile che ci sia capitato di vedere nei suoi 19 anni di carriera. È stato il Federer della semifinale con Djokovic al Roland Garros 2011, dell’incredibile cavalcata terminata a luglio 2012, quando pochi mesi prima c’era chi aveva sorriso all’ennesima spacconata: «Voglio tornare numero 1 del mondo» aveva detto, e in pochi potevano credere che quel 30enne facesse sul serio, specie con certi 25enni in giro. È stato il Federer dell’infortunio che pregiudicò una stagione intera, che fece dire a tanti che era finita, ed è stato quello che l’anno dopo riprese a vincere, che portò al quinto Novak Djokovic a Wimbledon chissà come e che per qualche settimana, addirittura, fece credere a tutti che avrebbe riprovato a diventare numero 1. È stato il Federer che, indossando un orrendo maglione grigio e vinaccia, prese il microfono e si scusò con il pubblico di Londra: questa volta non posso illudervi di potercela fare, ci vediamo l’anno prossimo, ve lo prometto. E poi ovviamente è stato il Federer della Coppa Davis, che non conta nulla tranne per chi la vince. Poi c’è stato il 2015, che era iniziato con una sconfitta con Seppi agli Australian Open e che sembrava il prologo di un nuovo Golgota e che invece fu solo l’inizio di un altro anno pieno di soddisfazioni e avaro di vittorie.
I suoi tifosi, per circa due anni, hanno vissuto in una bolla di illusione. Una bolla che è scoppiata qualche mese fa, quando perfino Federer è stato costretto a fermarsi, dopo settimane di dubbi, di chiacchiere, di timori. Il suo 2016, durato poco più di sei mesi, è stato un anno di appuntamenti rinviati. Non ci sarà a Indian Wells, poco male, lo rivedremo a Miami, si dissero i suoi tifosi. L’hanno dovuto aspettare fino a Montecarlo, a dire il vero. E allora prepariamoci per vederlo in forma a Roma, ma anche questa volta al Foro Italico dura poco. Per fortuna che c’è il Roland Garros, e quello uno Slam non lo salta nemmeno per sogno. Anzi, no, stavolta il sogno è un incubo, ma poco male, lo vedremo sull’erba, quella è una certezza. Però a Stoccarda, ad Halle e a Wimbledon Federer perde in semifinale contro Thiem, Zverev e Raonic, le nuove leve che non arrivano mai, e invece. A Londra, nel quinto set, fa uno scivolone che il giorno dopo diventa la copertina di una stagione. Qualche giorno più tardi arriva la notizia che fa raggelare tutti, ma che ognuno sapeva già da un pezzo pur non volendo ammetterlo: Roger Federer non parteciperà alle Olimpiadi, anzi non parteciperà a nessun altro torneo del 2016. E così, dopo quello scivolone, sono arrivate altre prime volte, forse meno dolorose: per la prima volta fuori dalla top 10, per la prima volta fuori dal Masters, per la prima volta senza uno straccio di torneo vinto a fine anno. E gli ultimi mesi del 2016 di Federer sono diventati i mesi degli avvistamenti: su Twitter prima di tutto, poi allo stadio a vedere il Basilea e dopo finalmente in campo, dove sta lavorando come mai prima d’ora, parola di Pierre Paganini. Per illudere un’altra volta, come sempre, i suoi tifosi più fedeli.
Oggi
Dear Fans, I’m extremely disappointed to announce that I will not be able to represent Switzerland at the Olympic Games in Rio and that I will also miss the remainder of the season. Considering all options after consulting with my doctors and my team, I have made the very difficult decision to call an end to my 2016 season as I need more extensive rehabilitation following my knee surgery earlier this year. The doctors advised that if I want to play on the ATP World Tour injury free for another few years, as I intend to do, I must give both my knee and body the proper time to fully recover. It is tough to miss the rest of the year. However, the silver lining is that this experience has made me realize how lucky I have been throughout my career with very few injuries. The love I have for tennis, the competition, tournaments and of course you, the fans remains intact. I am as motivated as ever and plan to put all my energy towards coming back strong, healthy and in shape to play attacking tennis in 2017.
Thanks for your continued support.
Il 26 luglio, sulla pagina facebook di Roger Federer, appare questo post. Dice alcune cose scontate, altre senza senso e alcune che lasciano appigli agli appassionati di tennis. Djokovic comincia l’ultimo torneo dell’anno che vincerà, Murray è ancora sotto la sbornia di Wimbledon, Wawrinka sembra lontanissimo dal poter vincere un altro slam. Il resto non esiste, c’è qualche mattana di Kyrgios, la lenta crescita di Zverev, l’ombra cupa di Nadal che non si capisce cosa stia facendo né perché. Lo spettacolo continua ma non tutti gli spettacoli sono gli stessi e questo non interessa a nessuno. Le Olimpiadi di Rio de Janeiro riescono ad offrire qualche sussulto, soprattutto grazie a del Potro, e a qualche tie-break del terzo set. Ma il tennis passa dai virtuosismi delle sale da concerto alle primordiali emozioni del pop, tutto sentimento e romanticismo.
Il mistero che attraversa Federer – una scialba personalità medio borghese che si illumina nel momento in cui mette pantaloncini e fascia elastica – sparisce con lui. Il tennis torna ad essere quello che in fondo è sempre stato: uno sport, magari interessante, ma che non giustifica le notti in bianco, i pomeriggi estivi davanti alla tv invece che al mare, la ricerca del trafiletto sul tennis nella pagina sportiva del giornale offerto dal primo bar disponibile. Roger Federer cambia mestiere, diventa testimonial. Lo spot per la macchina tedesca, quello per la racchetta, per lo spumante, per le scarpe, per la cioccolata, per l’improbabile torneo. E si lascia lo spazio per proseguire sulla strada della beatificazione, moltiplicando i rapporti con Laver, ben contento, il buon vecchio Rod, di poter diventare qualcuno di realmente noto e non soltanto una specie di statua per fedeli di una delle mille religioni.
«Che vinca o perda, è qualcosa che ricorderò, specie con un match così sensazionale. Ed è ancora più memorabile, perché mia moglie e i miei figli erano lì a vedermi. Ad essere sincero, è quella la cosa che mi ha emozionato di più. La delusione per la sconfitta se n’è andata piuttosto velocemente» (9 luglio 2014, dopo la sconfitta con Novak Djokovic nella finale di Wimbledon 2014).
Qui e lì arriva qualche video dei suoi allenamenti. A settembre racconta ai suoi fan delle vacanze in Svizzera tra baite alpine, laghi splendenti, sentieri e grotte che vorrebbero essere misteriose o forse esprimere un qualche amore per la natura. Una lotteria per avere la racchetta firmata di Roger Federer, mentre Andy Murray comincia a vincere. Ad ottobre, il mese di Basilea, Federer chiede agli appassionati di tennis di votare per lui per l’ATP World Tour Fan Favorite Award, nonostante abbia giocato solo 7 tornei nel 2016. È il solito plebiscito, gli altri giochino pure ma senza Federer il tennis è un altro sport. Uno sport minore.
Forse si eccede nell’interpretazione ma quando scrive “it’s nice to know that I might be out of sight but not out of mind” si intravede una qualche forma di perfidia: avete gli altri sotto gli occhi ma la vostra mente rimane mia. Si concede a Rafa e alla sua accademia e quando Murray supera Djokovic in testa alla classifica ATP il primo tweet è di Roger Federer. Ancora quella sensazione di sarcasmo, chissà quanto involontario: “Abbiamo un nuovo Re in città”. Alla fine dell’anno è lui a riepilogare la stagione: Epic start to the year per Novak Djokovic e Epic end to the year per Andy Murray.
«Ho bisogno di far uscire le mie emozioni. Ho bisogno del fuoco, del divertimento, della passione, di tutte quelle montagne russe. Ma ne ho bisogno nella misura in cui posso gestire tutto ciò. Mi ci sono voluti due anni per realizzarlo, è stato un percorso lungo» (27 giugno 2016, in un’intervista al Guardian)
Questo è il 2016 e se c’è dell’altro non è molto. Sei mesi senza frustate liquide, senza attacchi in controtempo, senza veroniche e impossibili demi-volée. Sei mesi senza sospiri, senza fiato trattenuto, senza preoccupazioni e senza sollievo. Sei mesi senza scrutare il ciuffo da sistemare, senza registrare la stizza regale dopo la sconfitta, senza vedere le lacrime. Sei mesi senza Federer.
Al solo annuncio della partecipazione alla Hopman Cup il delirio ricomincia: biglietti sold out con mesi di anticipo e spazio neanche per uno spillo nella Perth Arena. Quando il 29 dicembre Roger decide di permettere l’ingresso degli spettatori durante una sgambata arrivano settemila persone, una finale al Queen’s ne contiene meno.
Ma questo è oggi, anzi ieri. Perché oggi, 2 gennaio 2017, il presente senza Federer è finito.
Domani
Quando Roger Federer tornerà a giocare saranno passati sei mesi pieni dall’ultima sua partita, la semifinale di Wimbledon persa contro Milos Raonic al quinto set. Quel giorno per Federer è stata una sliding door: vincendo, arrivando in finale e poi magari battendo Murray, avrebbe potuto scegliere di lasciare il tennis, perché sarebbe stato il miglior epilogo possibile della sua carriera, l’ottava vittoria a Wimbledon, a 35 anni; ma Roger ha perso, e allora, visto che ha voglia di continuare, non c’era altra strada che rimettersi in sesto e superare l’infortunio con calma, perché i contratti con i tornei vanno rispettati e i biglietti si vendono solo se c’è lui in tabellone. Quel giorno non ha solo pensato a se stesso, Roger; fermandosi ha pensato che i suoi fan lo avrebbero ritrovato in condizioni fisiche ancora migliori. Si è fermato per lucidare l’ultima versione di Roger Federer, quella che conserveremo nei nostri ricordi.
Federer ricomincia con la Hopman Cup, un torneo che non gioca dal 2002 e che, l’ultima volta che lo vide in campo, giocò con Mirka Vavrinec, colei che sarebbe diventata sua moglie. Si emozionerà come la prima volta, ma sarà in Australia, lontano dai campi dove si è espresso al meglio, e allora tutto avrà un sapore esotico, non più strano del solito. E pazienza se l’Hopman Cup è soltanto un’esibizione. A breve ci saranno le vittorie vere in palio, i punti da difendere, 720 solo in Australia, quasi un terzo di quelli ottenuti in tutto il 2016. Forse gli occorrerà riprendere confidenza coi problemi che solo una partita ufficiale ti pone, ma noi saremo pronti a perdonare una qualsiasi sconfitta contro un qualsiasi avversario in un qualsiasi turno. Saremo indulgenti, anche perché, per ora, rivedere in campo Federer è già di per sé una vittoria.
Roger Federer troverà che qualcosa è cambiato. Il suo ultimo torneo, Wimbledon 2016, è anche quello che ha fatto sprofondare nella crisi Djokovic, sconfitto da Sam Querrey nell’incredulità generale. Troverà un nuovo numero uno del mondo, Murray, e un numero due, Djokovic, forse di nuovo affamato di successi. Per Federer, però, non cambierà granché: Djokovic e Murray hanno sempre fatto parte della sua carriera. Lo spiazzerà di più trovarsi di fronte i nuovi avversari, giovani come Kyrgios o medio-giovani come Raonic, ulteriormente migliorati mentre lo svizzero era a fare trekking sulle Alpi. Ci sarà ancora Wawrinka, che chissà quale Slam sceglierà di vincere quest’anno. E naturalmente tornerà anche lui, uno che ha avuto meno coraggio di Federer nel prendere quella decisione a cui avrebbe dovuto rassegnarsi molti mesi prima: Rafael Nadal.
Lo spagnolo ha detto basta prima delle ATP Finals, continuando a perdere nei vari tornei e facendo la figura del campione dimesso, un comportamento che a Federer non sarebbe piaciuto. I rispettivi tifosi, per una volta, saranno felici assieme perché gli uni senza gli altri non avrebbero mai potuto esultare e piangere così intensamente come quando erano di fronte. Anche Federer e Nadal, i due che hanno superato per popolarità tutti i confini del tennis, saranno felici di trovarsi nello stesso spogliatoio. Magari sullo stesso campo, alla stessa ora. E allora Roger Federer sarà tornato veramente, perché senza Nadal non ci può essere Federer. Sarebbe l’esibizione di una rock band senza membri originali.
«Non penso che questo sarà il mio ultimo viaggio in Australia, anche se lo potrebbe essere. Sono molto ottimista. Sono rimasto fuori sei mesi in modo da poter giocare altri due o tre anni, non solo per sei mesi» (30 dicembre 2016, poco prima del suo esordio alla Hopman Cup, sei mesi dopo il suo ultimo match ufficiale).
Sei mesi senza Roger Federer, un allenamento all’addio, ammesso che i suoi tifosi riusciranno mai a distaccarsi dalla divinità della religione tennistica con più seguaci al mondo. Hanno trascorso i mesi seguendo il tennis con più distacco, perché lui non giocava. E mentre si leggevano gli articoli e si sbirciavano i tabelloni dei tornei dove il Divino non compariva più, si dava uno sguardo a Twitter in cerca delle sue foto mentre passeggiava in montagna o lavorava in palestra. Poi, un giorno, ha condiviso un breve video in cui lo si rivedeva colpire la pallina con la racchetta, e i suoi tifosi hanno potuto sorridere di gioia, di nuovo. È una cosa che i suoi tifosi fanno comunemente, sorridere, e in maniera spontanea, dal cuore. Sia che lo vedano per la prima volta in campo, allenamento o partita che sia, o che assistano serialmente a una replica del suo tennis, il cuore li porta a manifestare la gioia nella maniera più banale, curvando la bocca all’insù. Anni di schermaglie coi tifosi di Nadal, poi con quelli che sostenevano Djokovic, l’ultimo avversario mentre lo spagnolo era in calo, fino a dover confrontarsi anche coi sostenitori di Murray, fortunatamente pochi, e tutto riparte oggi, da capo, di nuovo.
Innamorati della sua naturalezza nel colpire la pallina e della sua eleganza nello spostarsi senza fare tanto rumore sul campo, i tifosi di Federer si sono consegnati senza dubbi a questa religione, inebriandosi dei suoi gesti, dei suoi colpi ma anche dei suoi silenzi e delle sue pause, come quando gira vorticosamente la racchetta fra i polsi mentre si prepara a ribattere un servizio, oppure quando lancia la palla in alto così perfettamente per colpire al servizio, un gesto così fluido che sembra un elemento della natura in evoluzione. Questa naturalezza, che molti chiamano classe, è la chiave dell’amore per questo svizzero. Il candore dei suoi completini bianchi o scuri spicca nell’anonimato delle mise dei suoi avversari, che si colorano, accorciano e allungano alla ricerca di attenzioni. A lui basta il solito completo senza fronzoli, perché lui è classy, lui è l’ultimo anello di congiunzione col tennis classico. Lui è l’erede di Sampras, colui che non lascerà eredi.
Non ci sarà un Federer dopo Federer. E non serve menzionare quello là, quello che quando colpisce lo ricorda, perché l’originale è pezzo unico, e le copie non sono all’altezza dell’esposizione. Ci sarà un giocatore dal bel rovescio ad una mano, e ce ne sono, qualcuno che colpirà il dritto forte come lui, ma non così elegante nel farlo mentre corre in avanti, protendendo la racchetta per giocare la volée. E poi, non ci sarà nessuno in grado di giocare un rovescio in backspin simile al suo, o così bravo nello smash, anche se Nadal vale Federer ma lui è, in quanto Federer, più elegante nell’esecuzione. Tutte queste cose assieme non ci saranno più. Certo, non mancheranno i giullari, quelli del colpo sotto le gambe che poi allargano le braccia in favore di camera dopo un punto spettacolare, ma non ci sarà più nessuno che a metà campo alzerà la racchetta per mimare una smorzata per poi allungare il colpo a fondo campo, magari con il taglio sotto mentre l’avversario avrà già corso in avanti e rimarrà, inevitabilmente, spiazzato. Un capolavoro di tempismo, classe e, perché no, presa in giro, infinitamente più elegante e spettacolare nonché difficile di qualsiasi altro colpo.
Questo è Federer, e nessun’altro fa queste cose. E anche quando ha rincorso la spensieratezza dei giovani, inventandosi quella risposta anticipata che McEnroe faceva dagli anni ‘80, ribattezzata SABR, è stato per poco tempo. Questo era il massimo dell’esuberanza di Federer, moderato come il miglior democristiano in sala stampa, ma abile, proprio come i democristiani, a usare il sarcasmo per mandare messaggi ai suoi avversari. Non c’è, a vista, un qualsiasi giocatore che potrà personificare questo unicum di stile e irrimediabile consapevolezza di essere il migliore, e pazienza se questa è costata qualche Slam o antipatia. Per trascendere il tempo, per avere il posto fisso nei ricordi, non c’è spazio per epigoni o falsi d’autore: Federer muore con Federer.
Ci sarà un giorno, poi, in cui Roger Federer sceglierà un campo dove giocare la sua ultima partita. Lo avrà annunciato mesi prima, dopo aver pensato bene a come uscire dal tennis giocato nella migliore maniera possibile. Ne avrà discusso con Mirka e Tony, moglie e manager che hanno sempre indirizzato il suo cammino, discutendone e appoggiandone ogni singola scelta. Severin Lüthi non potrà che dire sì, e anche Stefan Edberg, il mito di gioventù, non potrà che arrendersi all’inevitabile, ammesso che venga interpellato. Il giorno in cui Federer lascerà il tennis troverà sugli spalti il solito pubblico. Non ci saranno posti vuoti, perché non c’erano quando giocava un primo turno qualsiasi e figuriamoci in occasione dell’ultima partita. I biglietti saranno oggetto di bagarinaggio folle perché, dannazione, è come il tour d’addio della più grande rock band di sempre: bisogna esserci se si è un fan, uno di quelli che grazie a questo giocatore hanno esultato, tanto, e pianto, altrettanto, nel corso di quindici e chissà quanti altri anni.
Il campo dove giocherà per l’ultima volta probabilmente avrà il fondo in erba, sarà Wimbledon, dove ha vinto più di tutti e dove si è sempre sentito a casa, vestendo di bianco, con la giacca elegante, e pazienza per quella fascetta tergisudore in testa. Oppure potrebbe lasciare a Basilea, a casa sua, ma non sortirebbe lo stesso effetto. Quel giorno, l’ultimo, celebreremo con molta probabilità una sconfitta di Roger Federer. Il campo sarà il centrale, e quando il giornalista gli porgerà il microfono a fine gara non dovrà rivolgergli nessuna domanda. Roger Federer parlerà dopo aver passato qualche minuto a piangere sulla sedia. Non si coprirà il volto con l’asciugamano: le sue lacrime, Roger, non le ha mai nascoste. Non ha mai avuto paura di esibire le sue emozioni, e quel giorno lo dimostrerà ancora, emozionandosi per l’ultima volta su un campo da tennis. Ringrazierà tutti, dimenticherà qualcuno, come capita, e poi ci dirà quanto ha amato questo sport, che gli ha dato così tanto e che lui utilizzerà per restituire altrettanto, a gente più sfortunata di lui o ai semplici appassionati. Continuerà a piangere mentre tutti lo applaudiranno, in piedi ovviamente, realizzando che da quel momento in poi Roger Federer sarà solo un ricordo. Tutti noi, presenti e spettatori da schermo, cristallizzeremo mentalmente quel momento per rievocarlo tanti anni dopo. Ci emozioneremo con lui, e poi proveremo a spiegare ai nostri figli quanto era sublime Roger Federer, che noi abbiamo visto giocare quando ancora era Re. Quel giorno, però, non è oggi.