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L’uomo che non c’è

Sa che dovrà convivere con il dolore, per continuare a giocare a tennis. Ma Palito è disposto a farlo, perché il dolore aiuta a crescere e lui è cambiato tanto dopo sette anni e quattro operazioni al polso. Ora è l’eroe di tutti, non solo degli argentini. E tutti lo aspettano al vertice. E adesso, mitico Del Potro? Dopo questo 2016 da leggenda in cui come Ulisse dopo mille peripezie (ospedaliere) il lungagnone di Tandil è tornato a mostrare miracoli nella sua Itaca, ovvero nel tennis, è lecito chiedersi che cosa ci riserverà nel 2017.

In un anno dominato quasi completamente dai due gemelli diversi Murray e Djokovic, ne converrete, Delpo è stato il Terzo Uomo, anche più del vincitore dell’unico Slam sfuggito ai Dioscuri, cioè Stan Wawrinka. Un uomo e un tennista diverso da quello che avevamo lasciato anni fa, prima che la maledizione dei polsi fragili gli tagliuzzasse a varie riprese la carriera.
Il gaucho molto sveglio e poco trattabile, ombroso, dell’adolescenza e della giovinezza si è trasformato nell’eroe di tutti, l’hombre dallo sguardo celeste capace non solo di vincere, ma di commuovere anche i meno teneri di cuore (i giornalisti, per esempio). La favola del campione bersagliato dalla sfortuna che torna e si riprende quello che gli era stato sottratto da un destino implacabile e baro è una delle più antiche e fascinose: Ulisse, appunto, che dopo vent’anni riappare a Itaca bello di fama e di sventura; ma se volete anche The Natural di Bernard Malamud, bellissimo romanzo – e bellissimo anche il film che ne è stato tratto, Il migliore, con Robert Redford. Del resto, poi, non si chiama volver, tornare, il più famoso dei tanghi di Gardel? (Sentir/que es un soplo la vida/ que veinte anos no es nada…)
Il dolore ti cambia, ti aiuta a crescere e imparare (lo dicevano i greci, non Marzullo). A rinascere.

La trasformazione del Palito è durata sette anni e quattro interventi chirurgici, ma per i meno attenti alle sue tormentate vicende negli ultimi mesi si è incarnata soprattutto in due match: il primo turno vinto contro Djokovic alle Olimpiadi, con tanto di lacrimazione collettiva in mondovisione, e il punto del 2-2 nella finale di Coppa Davis estratto in cinque set dalla carne viva di Cilic, il più antico dei suoi rivali. Garra, y corazon. Come non cadere fulminati dalla sua vicenda umana, tanto più che il nuovo Del Potro è sempre feroce, ma anche molto zen nell’approccio alla vita? Come non considerarlo, soprattutto, ormai virtualmente un Top 10, anche considerando che nel 2016 su tre match contro il numero uno del mondo, prima Djokovic e poi Murray, ne ha vinti due, ed è risalito al numero 38 guadagnando 500 posizioni in classifica?

Le favole certo piacciono a tutti, per primo a chi scrive, la realtà però è un altro paio di maniche e a questo punto entrano in campo di nuovo in campo le divinità (soprattutto la maledettissima dea della sfiga) e la scienza. La ESPN ha intervistato Richard Berger, l’uomo che gli ha ricucito tre volte il polso e che si è dichiarato ottimista sul fatto che Delpo l’anno prossimo possa giocare “full schedule”, cioè a tempo pieno per tutta la stagione. Il recupero non è stato un processo semplice, ma un compromesso faticoso fra efficienza e dolore che ha comportato un cambiamento della presa di rovescio, il colpo danneggiato dagli ultimi infortuni. «Abbiamo dovuto trovare una soluzione che gli consentisse di usare all’85 per cento il polso sinistro», ha spiegato Berger, uno che si è affezionato talmente al paziente argentino che non riesce più a guardare in tv suoi match, ma se li fa raccontare dalla moglie stando in un’altra stanza. «Ora ha ritrovato un punto d’impatto ideale. La potenza e la precisione sono quelle di un tempo, il dolore non è così forte. Ma c’è voluta molta disciplina per far funzionare il cambiamento».

Del Potro però sa bene che, se vuole continuare a giocare a tennis, con il dolore dovrà convivere per il resto della sua carriera. A 28 anni può regalarci ancora qualche incanto, qualche magia, e forti dell’ottimismo del dottor Berger proviamo a scommetterci anche noi. Se poi riuscirà a rientrare davvero fra i primi 10 (possibile) o addirittura fra i primi 3-4 (più difficile), lo scopriremo l’anno prossimo. Anche di Ulisse conosciamo tutti (vero?) la ganzissima scena in cui si fa riconoscere da Penelope & Co. sbaragliando i Proci con la potenza del suo diritto – pardon, del suo arco… – però poi le leggende sul suo destino ultimo divergono: chi lo dà finalmente re felice e sazio, chi di nuovo ingegno disperso fra le onde. Con la mitologia, anche quella dello sport, in fondo è sempre così – non sai mai dove vai a finire.

Stefano Semeraro

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