Questo inizio di 2017, come prevedibile, è stato cannibalizzato dall’atteso rientro di Federer. Nonostante il fuoriclasse svizzero fosse impegnato soltanto in un’esibizione a squadre, la sua assenza negli ultimi sei mesi s’è fatta sentire a tal punto, da relegare quasi in un cantuccio i tornei ufficiali con i vari Murray, Djokovic, Nadal e compagnia cantante.
Ma visto che di Federer s’è parlato ormai il giusto (e statene certi se ne parlerà ancora assai) noi vogliamo ora concentrarci su quanto successo nei tornei “veri”, quelli con titoli e punti in palio. E di cose interessanti a nostro avviso ne sono successe parecchie. A partire dal primo scontro al vertice tra i primi due giocatori del mondo, Murray e Djokovic. Ha avuto la meglio il miracolato (da San Verdasco) Nole che, dopo aver fallito una vagonata di matchpoint nel secondo set, ha ripreso il filo del discorso e ha meritatamente portato a casa match e titolo.
Così facendo, per molti, avrebbe conquistato un vantaggio psicologico nei confronti del rivale in vista del prossimo Australian Open. Sì e no. Noi, per dire, non ne saremmo così sicuri. Vestiamo per un attimo le vesti degli psicologi da strapazzo e osiamo immaginare che questa sconfitta potrebbe perfino aver liberato Murray dal ruolo di favorito numero uno, e quindi dal peso del pronostico. In fondo, chi può dire che non sarà così? Molto presto sapremo tutto.
Sono successe però ancora altre cose molto interessanti. Abbiamo rivisto un buonissimo Nadal al rientro in un torneo vero. Perdere da Raonic ci sta, eccome. Da qui a Melbourne il maiorchino non potrà che migliorare e, con Federer, potrebbe essere la vera mina vagante d’un tabellone mai così intrigante.
Già, Raonic. Il gigante canadese, come si diceva, ha superato Nadal in quel di Brisbane. Cosa mai banale, tanto più che il successo è arrivato in rimonta. E tutti noi (tranne Fognini) sappiamo quanto sia complicato raggiungere e superare il campione spagnolo quando è in vantaggio.
Milo è a buon punto, ma non ancora al top. E forse è un bene, se l’obiettivo – e non può essere diversamente – è quello di disputare un Australian Open da protagonista. Che nel suo caso significa giocare per vincerlo. Proprio così, avete capito bene. Ormai il canadese occupa la terza posizione del ranking, ha già giocato una finale Slam nell’ultima edizione di Wimbledon e nel Masters di fine anno è stato ad un passo dall’eliminare il futuro campione Murray in semifinale (2 matchpoint mancati). A 26 anni e con questi presupposti il suo obiettivo non può essere che la vittoria finale. E di certo, qualunque risultato inferiore alla semifinale andrà accolto come una delusione.
Certo, dovrà sperare – come tutti d’altro canto – in un tabellone non troppo dispendioso nei primi turni e con Dimitrov ben alla larga dalla sua zona. Sebbene i precedenti non siano ancora così numerosi, tra lui e il bulgaro sembrerebbe riprodursi lo schema già andato in onda tra Roddick e Federer. Con Dimitrov che si trova perfettamente a suo agio dinanzi alle piatte bordate lanciategli dal cocciuto canadese.
E siamo arrivati così al succo della storia, Dimitrov. Del bulgaro si parla ormai da anni, forse troppi. Sembrava un predestinato e forse (forse…) lo era per davvero. Sicuramente più di Gasquet, tanto per dirne una. Così gli hanno subito appioppato quell’orribile nickname che deve essergli pesato una tonnellata, oltre ad avergli portato una discreta sfiga: Baby Federer!
Non c’è voluto molto a capire che il Nostro era molto Baby e poco Federer. Tanto per cominciare perché di Federer, quello vero, ce n’è uno soltanto e bisogna diffidare delle imitazioni. Poi perché, a parte alcune indubbie analogie nelle movenze, l’originale aggredisce la palla con una foga che il ciuffo sempre in ordine non è mai riuscito a dissimulare. Foga mai vista, se non a sprazzi, nella sfocata copia bulgara.
Almeno fino alla scorsa settimana. Perché nella ridente (?) Brisbane abbiamo finalmente visto un’altra versione di Dimitrov, quella che avremmo sempre voluto vedere e che, con un (bel) po’ d’immaginazione poteva forse giustificare quel soprannome così ingombrante. Frutto del lavoro – fisico, tecnico e mentale – fatto col nuovo coach, Daniel Vallverdu (gia ex di Murray e Berdych).
Innanzitutto i fatti: nel primo torneo dell’anno il bulgaro s’è aggiudicato il titolo mettendo in fila, uno dopo l’altro, Johnson (33), Mahut (38), Thiem (8), Raonic (3) e Nishikori (5). Due giocatori di tutto rispetto nei primi due turni, poi tre Top 8 in quarti, semi e finale. Non proprio robetta.
Ma ad impressionare favorevolmente, risultato a parte, è stato il diverso approccio mostrato in campo. In particolare, il bulgaro – lo diciamo piano piano – sembra aver risolto quello che da sempre è apparso come il suo grande tallone d’Achille: la passività, l’eccessiva attesa della palla. A Brisbane abbiamo visto Dimitrov anticipare come mai prima, e con i piedi ben piantati nel terreno. La novità ha prodotto risultati che sono ora sotto gli occhi di tutti, sia a livello estetico che di efficacia.
E ora? Cosa significa tutto questo? Che il Nostro è finalmente pronto per aggiudicarsi qualcosa d’importante? Nessun obbligo ovviamente, ma come per Raonic, l’obiettivo non può che essere quello. A quasi 26 anni, uno come lui, non può più accontentarsi soltanto di ben figurare. Deve ormai puntare al bersaglio grosso. Che non può essere Brisbane, non più almeno.
Dimitrov (e Raonic con lui) deve smetterla di vedere i “Fab Four” come un totem inattaccabile. Il totem va abbattuto e quel momento è arrivato: oggi, non domani. Il prossimo Australian Open sarà un banco di prova per tanti, ma i nostri occhi saranno puntati soprattutto su di lui. Per verificare se il momento del tanto annunciato salto di qualità è finalmente arrivato.
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