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Globetrotter: quei campanili da abbattere per uscire dal provincialismo

Due Maestri di tennis amici, italiani, parlano: «Hai visto quel ragazzo come gioca bene?». E l’altro: «Ah sì, di dove è?».

La prima domanda è sempre questa, e non ci sarebbe niente di male a domandare di dove sia un giocatore che non si conosce; ma, secondo me, in Italia, la domanda nasconde molto di più. Si cerca immediatamente una corrispondenza delle presunte caratteristiche tennistiche con quelle, sempre presunte, avvalorate dalla provenienza geografica, quasi sempre però in chiave negativa. Questo, è un errore madornale. «Ah, è di Bologna? Gli piaceranno troppo le tagliatelle…». Oppure, «Ah, è di Genova? Sarà tirchio e non vorrà investire una lira sul suo tennis…». O ancora… «Ah è di Napoli? Non avrà voglia di faticare…».

Quella forte caratterizzazione
Abituati al calcio, coloro che si occupano di attività di alto livello hanno quasi sempre una forte caratterizzazione con la provenienza geografica. Un campione come Panatta, romano, rappresenterebbe in pieno i luoghi comuni attribuiti ai romani dal resto della penisola. Geniale, sì, ma svogliato, convinto della propria forza nei momenti cruciali, ma strafottente quando commenta le proprie vittorie. Salvo poi scoprire che Adriano andò sei mesi in Australia, su suggerimento di Belardinelli, per imparare il tennis sull’erba dai grandi australiani, come per esempio Lew Hoad, e si è allenato come pochi professionisti quando era il momento di farlo e si è fatto “un mazzo tanto” a Formia al centro di atletica Bruno Zauli.

Oppure Renzo Furlan, friulano. Esempio di continuità, un atleta che più che con le parole si è sempre espresso con i fatti. Lo vedevo allenarsi sul cemento, col suo dritto dall’impugnatura molto chiusa e un servizio non proprio fortissimo, mentre cercava di guadagnare qualche millimetro di miglioramento ogni volta che entrava in campo sotto la guida di Riccardo Piatti. Furlan è arrivato a numero 18 del mondo vincendo tornei importanti indoor veloce. In teoria, dovrebbe essere il prototipo del friulano silenzioso e concreto, e poi si scopre che è simpaticissimo, intelligentissimo, e sempre pronto alla battuta e allo scherzo.

Regnano i pregiudizi
Su di me ho sentito spesso dire che sì, sono romano, ma sono anche un lavoratore perché mia nonna paterna veniva dalla campagna veneta (si chiamava Zampieri di cognome, tipico del Veneto), e quindi almeno per un quarto il mio sangue aveva origini votate al sacrificio e alla fatica. Insomma i pregiudizi regnano incontrastati. Potrei andare avanti parecchio, con ogni giocatore italiano che sia stato in Nazionale di Davis. Ho passato la vita nel tennis di alto livello, trent’anni, e più viaggiavo e più mi innamoravo dell’Italia. Ho vissuto al nord, a Torino, a Bergamo, a Merano, ma la città dove non ho mai perso e che sento tennisticamente “mia” è Bari (dove ho vinto il mio unico titolo ATP, nell’87, e dove ho giocato da titolare in Davis nel ‘91).

Ho lavorato ad Avezzano, a Torre del Greco e a Frosinone e ad ogni esperienza lavorativa ho affiancato una straordinaria esperienza umana. E anche oggi che risiedo all’estero, niente mi gratifica e mi stupisce come fossi ancora bambino nell’osservare attentamente quanta ricchezza e cultura traspiri da ogni città e ogni regione del nostro Paese. Cerco di spiegarlo ai miei amici, qui in Florida, ma non sempre ci riesco. Questa conoscenza profonda della nostra Bellezza mi è stata possibile, chiaramente, grazie al tennis, con gli occhi di chi conosce i quartieri di tutte le più grandi città italiane in base a dove si trovano i circoli di tennis (parlo dell’epoca “pre Google Maps”, mi sembra chiaro). Per esempio so che a Milano se devi trovare il Tennis Milano devi cercare Piazza Firenze, a Bologna se vai alla Virtus o al CRB sei a Borgo Panigale, il CT Firenze lo riconosci dai viali alberati delle Cascine e il TC Palermo è attaccato allo stadio della Favorita, per andare allo Junior Perugia si segua lo Stadio Santa Giuliana e via dicendo.

Tutta quella Bellezza usata male
Ai miei tempi c’erano in Italia nove tornei ATP, quindi ho avuto il privilegio di conoscere amici e le loro famiglie in tutta la penisola. I viaggi sono l’università della vita, a patto che si mantengano il cuore e la mente aperti ad accogliere persone, culture e abitudini diverse dalle proprie. Io ho fatto molto più di questo e lo voglio condividere con voi con questo articolo. Io quando vado una settimana a Firenze “divento” fiorentino, a Perugia perugino, a Milano milanese. Forse, per questo, ho il dono di saper imitare molto bene tutti i dialetti d’Italia, anche in inglese e spesso faccio ridere tutti nei tornei con queste imitazioni.

Tutto questo viaggiare mi ha fatto amare di più l’Italia, non ho mai sentito l’esigenza di alzare barriere, da romano contro le altre città; mai ho avvertito l’impulso di guardare alle altre città come fossero “feudi”, colori nemici, campanili da odiare e da abbattere. Ciò che mi fa soffrire, che mi amareggia profondamente e che ho l’ambizione di cambiare totalmente, è che tutta questa immensa ricchezza culturale, questa forza dirompente di differenze fondate su diversi modi di interpretare e godersi la vita, sportiva e non, venga utilizzata per una competizione tra regioni, città e circoli. Una competizione che non è sana e che assomiglia molto a una faida senza fine, a una lite che si tramanda da tempo immemorabile, spesso addirittura tra due circoli della stessa città!

Una lite nella quale può succedere che si auspichi la caduta e il declino del circolo rivale (“Così i ragazzi della scuola si trasferiscono da noi”…). Le Istituzioni, e considero i circoli una Istituzione sportiva, secondo me dovrebbero avere il fine ultimo di unire, nel tennis come nella società in generale. Al contrario, a volte ho la sensazione che il sistema istituzionale sportivo, probabilmente in modo inconsapevole, operi invece per dividere.
Lo sport insegna che la missione giornaliera dovrebbe solo e sempre essere quella di competere verso l’alto, con l’intento di migliorarsi e anzi apprezzare i progressi del tuo vicino per utilizzarli come stimolo. Mi sembra evidente che una buona parte della colpa sia del calcio. Spesso il disagio sociale fa prevaricare di gran lunga le finalità sportive e quelle di seguire un campionato di uno sport.

Ma il tennis non è il calcio. Per come l’ho sempre vissuto io, sia da giocatore sia da insegnante, il tennis è uno strumento formidabile di crescita, di conoscenza, di confronto con il prossimo; è un motivo per viaggiare e mettersi così in discussione in posti lontani dal tuo, lontani geograficamente ma anche come abitudini e cultura. E invece nel tennis si percepisce a mio avviso un odio atavico, gratuito e totalmente immotivato, che ha il suo culmine nelle famigerate “coppe a squadre”. Una volta chiamate “Coppa Italia”, “Coppa Facchinetti”, oppure “Coppa Croce”.

I dirigenti dei circoli, per la gran parte, sono dilettanti che queste “Coppe” le hanno giocate e nel loro mondo sono ancora il centro dell’attività tennistica, che inevitabilmente estendono e perpetuano anche ai giovani giocatori, facendo secondo me dei danni a volte irreversibili. Qualche genio ha persino inventato l’obbligo per i circoli di schierare due giocatori del “vivaio”, termine ovviamente mutuato dal calcio, che rafforza nei giovani la chiusura dentro le mura del “circolo di appartenenza” che mi suona come un termine prevaricante e violento (un tennista “appartiene” solo a se stesso) e quindi, automaticamente, è avversario di tutti gli altri nelle “Coppe a squadre”. I giovani tennisti vedono il tennis Internazionale dei Pro come se fosse l’Infinito oltre la siepe (quella del circolo) come Giacomo Leopardi!

Io propongo di rivedere il tutto, di riservare le “Coppe a squadre” solo agli Over 40, di investire di più in cultura tennistica, in clinic di alto livello, in conferenze sul tennis con ospiti importanti, in formazione di coach, in workshop, in tornei di singolo ma anche di doppio (quasi spariti). In un colpo solo si toglierebbe dalla scena il motivo del più grande problema che, secondo me, affligge non solo il tennis italiano, ma l’Italia stessa come Paese: il campanilismo.

Ho imparato ad amare tutti, ad apprezzare tutte le città italiane con le loro caratteristiche. Ho amici carissimi, tennisti e maestri, cui voglio molto bene, in Veneto, in Toscana, in Sardegna, in Emilia Romagna, in Puglia, nelle Marche… Se mi metto a contarli ne ho veramente in ogni regione d’Italia. Nella mia nuova attività, quella di avvicinare i ragazzi italiani alle Università Americane, ho avuto letteralmente a casa mia ragazzi da Cagliari, Udine, Padova, Roma, Palermo, Milano, Terni, Messina, Velletri, Vicenza, Firenze, Torino. Per ognuno di loro cerco di spiegare a mia moglie, che non è italiana, le peculiarità e le meraviglie della regione da dove provengono e scopro che ognuno dei miei allievi racconta le proprie origini con enorme orgoglio. Sanno descrivere il loro territorio e la storia delle proprie città alla perfezione. Io stesso, che pure sono esperto di Storia Italiana, ho imparato una quantità di cose di cui non sospettavo nemmeno l’esistenza. E sono diventato molto amico con le loro famiglie.

Un messaggio da condividere
Il messaggio che sento di condividere è di apprezzarci tutti, tra italiani, l’uno con l’altro. Sottolineare sempre e solo gli aspetti positivi, che sono infiniti, e minimizzare i luoghi comuni negativi. Seppelliamo il campanilismo e l’odio, rendiamo atto ai nostri eroi del Risorgimento e della Resistenza, movimenti su cui, non dimentichiamolo, sono stati scritti i principi fondamentali della nostra meravigliosa Costituzione, e posso dire a tutti i miei amici tennisti, maestri, genitori, in ogni regione, comune e provincia d’Italia: vi amo tutti e sono enormemente fiero di essere italiano come voi. E anche se la vita mi ha portato a vivere in un altro Paese, apprezzo ogni caratteristica e stile di vita, (anche se diversissimi tra loro) e imparo da ognuno di voi.

Claudio Pistolesi

Sono stato numero 71 ATP, una volta ho battuto anche Wilander. Ho allenato tanti giocatori: Seles, Bolelli, Soderling.

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Claudio Pistolesi

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