Davis Cup

Il quarto uomo

Ne vedremo mai un’altra? Probabilmente sì, se è vero il teorema di Émile Borel per cui anche uno scimpanzé con a disposizione l’eternità e una macchina da scrivere comporrebbe infine la Divina Commedia. Nel frattempo faremmo bene a tenerci stretta quell’unica insalatiera conquistata contro il Cile a Santiago quarant’anni or sono da quattro ragazzotti italiani, diversissimi ma uguali nel coraggio. Per una strana alchimia le loro racchette, rivali a coppie come nella briscola da bar, trovarono dentro un’insalatiera la forza di diventare un gruppo quasi invincibile, regalando all’Italia quattro finali in cinque anni. Un risultato eccezionale per qualunque nazione che non fosse la nostra, dove conta solo la vittoria purché sia mentre il secondo arrivato è solo uno sciocco.

La pigrizia del talento puro univa Panatta e Bertolucci mentre la forza del lavoro quotidiano era il tratto distintivo di soldatino Barazzutti. In panchina sedeva uno che, potete giurarci, ancora a quarantatré anni compiuti avrebbe fatto carte false per scendere in campo a sporcarsi i calzini di terra rossa. Nicola Pietrangeli aveva disputato due finali da giocatore nel ’60 e nel ’61 contro l’Australia ma all’epoca i canguri erano dei marziani. E fu quindi il suo erede, quello che lui quando era il re dei Parioli chiamava bonariamente “Ascenzietto”, a realizzare il suo sogno. E il quarto? Ora come allora Antonio Zugarelli detto Tonino è la mosca bianca (o la pecora nera, se preferite) di un gruppo degno della penna d’oca di un Alessandro Dumas padre. Mentre Adriano mostra in giro il fascino dei suoi quattro quarti di nobiltà tennistica, Corrado è il capitano del tennis nazionale e Paolone Bertolucci commenta con arguzia per la televisione, Tonino lo potete quasi certamente trovare nella sua Tennis Academy di Colle Diana, Sutri. È ancora sul campo in calzoncini e polo, i baffi alla Burt Reynolds bianchi per antico pelo, ad insegnare all’allievo di turno il magico segreto dell’anticipo. Lui l’aveva appreso per forza. Nel corso delle scorribande romane di una difficile adolescenza pasoliniana il pollice della sua mano destra rimane schiacciato sotto una catasta di tubi industriali. Amputato per metà. Ma lui è un duro, inventa un dritto personale, colpisce in controbalzo e attacca. Contro tutto e tutti.

Tonino si costruisce con le unghie e coi denti una carriera da campione, issandosi fino al ventisettesimo posto mondiale con la perla della finale agli Internazionali d’Italia 1977, persa contro “Broadway” Vitas Gerulaitis. Ma soprattutto apponendo una firma pesante alla conquista della Coppa. Pochi lo ricordano ma il suo apporto fu decisivo e giunse nel momento più importante. Wimbledon, 5-7 agosto 1976, l’Italia affronta la Gran Bretagna nella finale europea. Dopo un agevole cammino scandito dalle affermazioni contro Polonia, Jugoslavia e i campioni uscenti svedesi privi di Bjorn Borg l’erba perfetta dell’All England Club può trasformarsi in una trappola. Corrado Barazzutti, il nostro singolarista più affidabile, non la sopporta e allora Pietrangeli trova il coraggio di affidarsi a Zuga. E lui non tradisce. Sul campo 1 Tonino conquista il primo punto sconfiggendo, o meglio portando a lezione, il pericoloso ed esperto mancino Roger Taylor, un quasi top ten che sei anni prima aveva posto fine al regno di sua maestà Laver a Londra. Panatta si complica poi la vita fino al quinto prima di consegnarci il secondo punto.

Sembra fatta ma il nostro doppio cucina la frittata, va due a zero, soccombe in un quarto set da 34 giochi e crolla. Il giorno dopo è un Adriano in stato di grazia a dominare Taylor regalandoci la semifinale. Il quinto singolare conta solo per l’onore ma Tonino lo vuole giocare proprio per questo motivo. Ed è trionfo quando batte John Lloyd con un triplo 6-1 dopo aver perso i primi due. Il più è ormai fatto, la difficoltà maggiore sarà arrivarci in Cile, più che vincere. Al grido di “Non si giocano volée contro il boia Pinochet” gran parte dell’opinione pubblica italica, maestra in autolesionismo, preme per disertare la finale di Santiago ma la squadra resiste e fa sue le parole di Nick, che scandisce duro: “Dovranno strapparci il passaporto per impedirci di andare”. Il resto è storia di un anno bollente, un facile 2-0 dopo la prima giornata, Panatta che propone a Bertolucci di giocare il doppio decisivo indossando una simbolica maglietta rossa – “Adrià, ma sei scemo? Questi ci sparano!” – il neo-presidente Fit Paolo Galgani leggiero e presto molto a saltare sul carro dei vincitori dopo averne osteggiato in tutti i modi la partenza. Tutto molto italiano. Ma alfine la Coppa che fu di Dwight Davis e di Tilden, dei Doherty, di Lacoste e dei maestri australiani da quel giorno è anche un poco nostra. Lucidiamola per bene, in attesa che la scimmia di Borel completi la sua opera…

Raffaello Esposito

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