L’11 settembre non è nato nel 2001. Ci fu un 11 settembre, 28 anni prima, che fu almeno altrettanto tragico. Probabilmente di più, se si pensa alle terribili conseguenze che ebbe non solo sulla storia di un piccolo Paese, ma del mondo intero. L’operazione Condor, quella che tradusse in fatti concreti una famosa frase del premio Nobel per la pace Henry Kissinger, «Non capisco perché dobbiamo stare a guardare un Paese che cade nelle grinfie dei comunisti per l’irresponsabilità dei suoi abitanti», iniziava così: i carri armati per le strade, un presidente suicida, i militari al governo. E lo sport?
Lo stadio Nacional di Santiago del Cile viene trasformato in un’enorme campo di concentramento. Stime approssimative dicono che il golpe costò sessantamila morti e circa dieci volte tanto desaparecidos. Molti morirono e sparirono lì, dentro il Nacional. Lì Sepulveda a lungo, quando apriva gli occhi, vedeva il pavimento: era appeso per i piedi. Lì, al Nacional, nel novembre di quell’anno si gioca una grottesca partita per designare la sedicesima squadra che parteciperà alla prima coppa del Mondo FIFA, in Germania. Da una parte il Cile, dall’altra nessuno. L’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche fa sapere che possono procedere senza di loro. Francisco Valdes segna il gol dopo trenta secondi – da annullare perché non c’erano certo due giocatori tra il giocatore cileno e la porta avversaria – e dopo va a vomitare negli spogliatoi.
Nel 1974 l’Italia del tennis si trova a disputare le semifinali di Coppa Davis contro il Sudafrica. Il Sudafrica era stato espulso dal Comitato Olimpico Internazionale nel 1970. La FIFA l’aveva fatto nel 1963. Artur Ashe riuscì a far espellere il Sudafrica anche dalla Federazione Internazionale Tennis ma, riammessi nel 1973, i sudafricani ebbero il tempo di vincere la Coppa Davis del 1974 – contro l’India che rifiutò di giocare – per poi essere di nuovo espulsi l’anno dopo. Il tempo di giocare con l’Italia, poco turbata dall’idea che, forse, con i razzisti, non è il caso di scambiare due colpi.
Nel 1976 il Cile in semifinale di Davis trova ancora l’URSS. Di nuovo, i sovietici decidono che non era il caso: che la vincessero loro la Coppa Davis. Ma, al contrario del Sudafrica, i cileni incontrano gli italiani. Quella squadra la conoscono tutti: Barazzutti, Bertolucci, Panatta e Zugarelli. Il capitano è Nicola Pietrangeli. Quello che forse invece non tutti conoscono è l’incredibile leggenda che anno dopo anno andò a posarsi, invece del pietoso oblìo, su quella vicenda. Non cominciò tanto presto. L’Italia parte, vince 4-1 e torna a Roma praticamente senza farsi vedere da nessuno. Il tennis tutto sommato è uno sport di nicchia e la vicenda non è esattamente all’ordine del giorno.
In Italia c’è l’emergenza terrorismo, l’apparizione di Prima linea, lo scioglimento di Lotta Continua, il blocco della scala mobile, e insomma non è certo il tennis la preoccupazione principale del periodo. Il Cile non è solo un paese lontano però, visto che le preoccupazioni per l’operazione Condor non erano limitate solo al Sudamerica (Berlinguer, con tre articoli su Rinascita, alla fine del 1973 lancia l’idea del compromesso storico proprio per reazione al golpe cileno). Insomma, non sembrano esserci particolari motivi per fare di una questione tutto sommato marginale chissà quale discussione. La stessa decisione di Andreotti (in sostanza: «Se la veda il presidente del CONI») a posteriori verrà vista come chissà quale mefistofelica strategia ma guardando i giornali dell’epoca non sembra trasparire tutta questa preoccupazione.
Ma lo sport ha bisogno di miti e il tennis si presta abbastanza. Figurarsi quando si tratta di una vittoria di squadra che resterà ineguagliata nella storia della racchetta italiana. Col tempo cominciano ad apparire misteriosi aneddoti.
Il decennale passò sotto silenzio e il ricordo di Clerici del ventennale è un sobrio resoconto, in cui però cominciano ad apparire i primi segni di una leggenda in costruzione: polemiche, PCI e PSI che vogliono dare una lezione al figuro in occhiali scuri, un passaporto che rischia di essere strappato. Anzi, ancora no: al passaporto per adesso si rinuncia.
Per il venticinquennale arrivano le voci di screzi tra Belardinelli – una sorta incrocio tra un padre putativo, un potentissimo dirigente e un bizzoso accentratore – e Panatta. Per la prima volta si racconta che Galgani – non si è sempre vissuto di solo Binaghi, una volta si chiamava Galgani – avrebbe detto a Pietrangeli che «se mi avessero eletto la settimana prima voi non sareste partiti mai». Galgani vietò, forse, la partecipazione della squadra alla cena di gala e per questo – chissà – il presidente della Federazione Internazionale, invece di consegnare la coppa al presidente, la diede al capitano non giocatore, cioè a Pietrangeli. Il premio è un viaggio a Rio de Janeiro. Panatta arriva da Buenos Aires, dove si trovava per un torneo. L’Italia adesso si ricorda addirittura “spaccata”. La Federtennis diventa “invasa da giovani contestatari”. Tra loro, tal Baccini che adesso si dedica a qualche realista bega di cortile.
Si scopre uno slogan e una canzone di Modugno. Lo slogan è «Non si fanno le volée con quel boia di Pinochet». La canzone non si sa, si parlerebbe di una coppa “grondante sangue”. I dibattiti televisivi diventano numerosi (“si sprecarono”) arriva uno Speciale TG1 con la partecipazione di Pietrangeli, Sirola, Canepele, Compagna, Corbi e Ignazio Pirastu, responsabile sport (?) del PCI. Il comunista sardo pare dica «non è una tragedia se andrete, tiferemo Italia» e questo viene interpretato come un via libera. Pirastu sosterrà che la richiesta di andare sarebbe arrivata a Berlinguer e Tortorella dalla direzione del partito comunista cileno in clandestinità. Se non si fosse andati, il rischio, secondo Pirastu, sarebbe stato un ricompattamento della popolazione cilena con i golpisti.
Da lì in poi tutto diventa un glorioso mistero. Trasmissioni radiofoniche che sono con Pietrangeli, no, con Panatta; macché, con Barazzutti e Pietrangeli. Dall’altra parte sempre Pajetta, al quale si rinfaccerebbe il silenzio sull’acquisto di rame cileno attraverso la Jugoslavia (a Pajetta?). Panatta si tira fuori la storia della maglietta rossa, che sarebbe stata indossata dal “socialista” romano. Pietrangeli dice «ma figurarsi, era quella con cui aveva vinto il Roland Garros» (questo possiamo garantire che non è vero, era blu. Ma Panatta nel quarto set di quel doppio la maglietta rossa la cambiò: con una blu). Barazzutti racconta che non ne aveva mai sentito parlare di questa storia e comunque non ne sapeva niente. Anche la questione del Partito comunista cileno si trasfigura. Sarebbe stato il segretario del partito comunista cileno a parlare con Berlinguer e il motivo diventa che era importante andare per evitare che il regime potesse fregiarsi di cotanto alloro sportivo. Della canzone di Modugno si scopre un’altra strofa, sparisce lo splatter:
Ma che facciamo? Andiamo da quel fascista/
e gli diciam: Señor hasta la vista/
e poi prendendo in mano la racchetta/
dimentichiamo tutto così in fretta.
La canzone rimane introvabile ma aiuta. Lentamente sembra imporsi l’idea che l’Italia di quello scorcio del ’76 non si occupasse d’altro. Persino i premi cambiano, adesso non è più il viaggio a Rio de Janeiro, ma un orologio.
Rimane il risultato: Italia batte Cile 4 a 1.
Barazzutti batte Fillol 7-5 4-6 7-5 6-1; Panatta batte Cornejo 6-3 6-1 6-3; Panatta/Bertolucci battono Fillol/Cornejo 8-6 6-4 3-6 9-7; Panatta batte Fillol 8-6 6-4 3-6 10-8; Prajoux batte Zugarelli 6-4 6-4 6-2. O no?
In fondo sono solo solo 40 anni. Chissà, tra 10 anni scopriremo che alla fine, l’Italia, la salvarono loro.
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