La parola del Direttore

Per Andy Murray il meglio è passato

TENNIS – Il lungo inseguimento di Andy Murray è finito. Ma ora viene il bello, lo scozzese dovrà dimostrare di aver compreso che tra il numero 2 e il numero 1 la differenza non una solo posizione in classifica.

L’azienda Murray si trasferisce in America, ma non è una conseguenza della Brexit. Lì Andy ha la seconda casa, o la terza, forse la quarta, chissà. Una a Dunblane, una a Londra, ma quella che interessa maggiormente chi segue il tennis è a Miami, due passi da Ocean Drive. Vacanze e lavoro, campo da tennis sotto casa, stanze per due coach, un preparatore, una segretaria, due bambinaie, poi c’è la sua, padronale. Moglie Kim e figlia Sophia saranno al seguito. Comincia la prima stagione da numero uno. Alla ripresa, il 2 gennaio, le settimane da capoclasse saranno già otto, e il rodaggio dovrà ritenersi ultimato.

La conquista del primato nell’ultimo mese tennistico del 2016 attribuisce a Murray un bonus di permanenza in vetta che già lo spinge verso la metà della classifica dei dominatori. Dietro di lui Moya, Kafelnikov, Rios, anche Rafter, che fu primo per una sola settimana. Davanti, tutti quelli che la storia del tennis sono riusciti a trasformarla in un fatto privato, quasi in un vitalizio. Da Wilander che governò per 20 settimane, su su fino a Federer, che per defenestrarlo, 302 settimane dopo, l’hanno dovuto attaccare in tre. Dovrebbe saperlo bene, Murray, perché fra quei tre c’era anche lui, giunto al soglio tennistico già ventinovenne, e solo quando la veemenza degli altri iscritti al Club dei Favolosi si è affievolita, vuoi per gli infortuni (Nadal), vuoi per la raggiunta sazietà da trionfi (Djokovic). Ma ora tocca a lui. E dovrà dare risposte. Scoprirà che quanto fatto sin qui conterà meno, se non proseguirà a farlo. Dovrà rivestire panni da numero uno, assumerne le responsabilità. Inventarsi un suo modo di essere il migliore. E migliorare il carattere, forse anche il gioco, perché è vero, “spalletta” troppo, anche se lo fa dall’alto di una fisicità dilagante e attraverso una costruzione tennistica tale da promuoverlo, se non altro, a “pallettaro specializzato”. Soprattutto, dovrà accettare il confronto, quotidiano, fastidioso e assai poco indulgente con quei tre che l’hanno preceduto imprimendosi nella storia di questo sport.

Finirà il buon Murray, così attento a tutto ciò che lo circonda, così assennato nell’investire i 55 milioni di dollari già guadagnati nei rivoli diversificati che comprendono il settore alberghiero (ha acquistato da poco il “5 stelle” Cromlix House a Dunblane) e una ventina di nuove start-up britanniche, finirà questo figlio così prodigo di perfezione, nel tritatutto delle analisi più spietate, dove l’oggetto non saranno i colpi del suo tennis – buonissimo, grammo più, grammo meno, come quello di tutti i Favolosi – ma gli aspetti più personali, e tecnici, gestionali e anche mediatici del suo essere Numero Uno. Il carisma, l’intensità con cui combatte, le doti fisiche e da stratega, la tenuta mentale, e certo, il divertimento che procura il vederlo giocare, la vicinanza dei tifosi che alla fine fa la differenza, e la mancanza o meno di quel killer instinct che permette di chiudere i match senza dispendiosi prolungamenti.
Su questi valori, alla fine, la Storia del Tennis emetterà il verdetto, e ci dirà chi è stato Murray come governatore.

Noi, a occhio e croce, siamo per concedere ancora un po’ di apprendistato. Ovvio, vi sono attributi che non si acquistano ai mercati generali di Dunblane. Il carisma di Federer e Nadal, quella capacità di dominare il campo con gli occhi, dagli arbitri agli spettatori, quel modo stesso di rapportarsi agli avversari, obbligandoli a scendere in campo già per metà battuti, va coltivato strada facendo e non è detto che prenda forma. Murray è meno portato di altri nel far sentire il suo peso “umano”. Si concede lamenti che rincuorano gli avversari, piccole crisi isteriche nei confronti del suo angolo che lo fanno sembrare più fragile di quanto non sia. Ma è dura sentirsi secondo per una vita. E lui, lo è stato per 76 settimane filate, dietro al Djokovic che tutto vinceva. Passi avanti forse li ha già fatti, se è vero che nella finale del Master non ha ceduto alle angosce. Ma sul resto, dovrà lavorarci. Eccelle in altre voci, il nostro. La tenuta fisica è ammirevole, in 12 anni da professionista solo un infortunio, alla schiena. E nell’intensità del gioco, per quelle sue doti ingegneristiche che gli permettono l’innalzamento di barriere insuperabili, non è inferiore a Djokovic. Lo stesso per la tenuta mentale, che è diversa dal carisma e dal credere nelle sue possibilità, ma è la capacità di stare sul pezzo, di non perdere la concentrazione. 3 ore e 38 contro Raonic? Ben vengano.

È una pagella che condurrebbe qualsiasi genitore a traboccare d’orgoglio, quella di Murray. Ma su una voce dovrebbe tentare di migliorare, ampliando il fronte del suo gioco. La varietà dei colpi. Quella che si traduce in emozioni forti negli spettatori, in sorpresa negli avversari. Murray trattiene gli estri, ammesso che ne abbia. Non ti fa saltare sulla sedia. Dovrà pensarci da solo, imparare. Certo non saranno Lendl né mamma Judy a a insegnarglielo. Del resto, come si dice, ogni numero uno è bello a mamma sua. E per un coach, vale lo stesso.

Daniele Azzolini

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