La parola del Direttore

L’inferno della Davis ha trovato il suo diavolo

Altro modo non c’è, per vincere la Davis. Io non lo conosco. Resistere, rimontare, inseguire, sorpassare: sono i verbi che declinano le conquiste storiche nella vecchia Saladier, la ciotola. I francesi la chiamarono così e noi italiani ci accodammo, pensando che si parlasse di una insalatiera. E va bene, le parole girano nel vento dei ricordi, ma quelle che servono davvero sono sempre le stesse. In Davis, il pubblico che partecipa, il gruppo che è bene sia di granito, la maglia nazionale che è sempre la più bella che vi sia. Dimentico qualcosa? Juan Martin del Potro si batte il pugno sul petto, il cuore serve, che altro? Giusto, il cuore…
E Federico Delbonis ha occhi gonfi di lacrime. Vanno bene anch’esse, anzi, fanno bene, perché i sentimenti sono genuini e non c’è niente da nascondere. E i suoni, tantissime note, una cascata. Il pubblico che canta. Lo ha fatto per tre giorni filati. Urlato a squarciagola, l’Himno National arriva distorto ma potente, nemmeno il Jimi Hendrix del festival di Monterrey l’avrebbe fatto meglio. È una versione un po’ sbrindellata ma patriottica, parecchio eccitata, quasi ebbra, e dà il segno di una felicità immensa, che dipinge di bianco e azzurro uno stadio intero. Ma quanti sono? Metà Arena, tutta l’Arena? Non siamo in Argentina, siamo a tredici ore buone di aereo, ma gli argentini sono dappertutto. Anche Maradona è dappertutto. È festa vera. La vecchia bowl d’argento ha trovato casa, finalmente, nel Paese che la stava aspettando da sempre.

Ora la quadratura è perfetta. L’Argentina era l’ultima grande Scuola tennistica a non aver mai vinto la Coppa. Novantatré anni di tentativi (il debutto fu nel 1923), quattro finali disperse, compresa quella giocata davanti al proprio pubblico, Estadio Islas Malvinas, Mar del Plata. Era il 2008 e non c’era Nadal. Ma la Spagna di allora riusciva a farne a meno, oggi chissà. Ferrer, Feliciano Lopez e Verdasco bastarono, gli argentini misero in campo Nalbandian il vecchio e Del Potro il giovane, ma solo il primo fece l’impresa battendo Ferrer. Del Potro invece rovinò tutto. Si fece prendere il tempo degli scambi da Lopez, perse la testa. Gli argentini non furono teneri con lui, ma ieri erano tutti lì da capo, partecipi del suo riscatto, pronti a chiederglielo, a incoraggiarlo, a sostenerlo.

E il riscatto è arrivato, alla fine, ma come sia stato possibile solo le divinità del tennis possono dirlo. Certo, quel magnifico dritto in corsa, pesante come un container che ti cade addosso. Vero, il servizio che è diventato via via sempre più centrato. Sicuro, quei due, tre passaggi a vuoto che hanno frenato l’aire di Marin Cilic, il gemello croato di Delpo (entrambi del 1988, entrambi di settembre, il 23 Juan Martin, il 28 Marin, entrambi alti 1,98 e soprattutto amici). Ma il croato era avanti di due set, giocava davanti al proprio pubblico nella Zagreb Arena, martellava con il servizio a 226 chilometri orari (fantascientifica la media dei servizi nei cinque set, 204 orari), e insomma, teneva il gioco in mano. La Croazia, 2-1 dopo il doppio di sabato, era a un set dalla sua seconda Coppa.
Ma la Davis è strana, lo sapete. Se il tennis l’ha inventato il diavolo, la bowl d’argento per servire il punch, poi diventata trofeo, fioriera (la moglie di Norman Brookes la utilizzava così, in attesa di riconsegnarla ai finalisti), ciotola e infine insalatiera, quella coppa dicevamo, l’hanno forgiata nel fuoco infernale. Del Potro si è rilanciato ritrovando il servizio, e quello gli ha restituito l’uno-due che smonta gli avversari. Colpo di obice a 220 orari e dritto a campo aperto. Sotto quel fuoco incrociato, Cilic ha perso la bussola, si è fatto timido. È bastato poco, e Delpo gli è finito addosso, lo ha risucchiato punto su punto. Sul 2-1 del quinto è passato per la prima volta in testa, ma c’erano già stati due break. L’ultimo è giunto sul 3-2 e Cilic non l’ha più recuperato. Quattro ore e 53 minuti per stabilire che tutto era in perfetta parità, come se niente fosse accaduto.

Forse, alla fine, la differenza l’ha fatta proprio lei, la Davis. Quella “old style”, che non tutti sanno giocarla, nemmeno certi campioni. Quella che ti gonfia di apprensioni e ti intorcina i pensieri. La Davis con il pubblico che ti fischia, che sghignazza quando sbagli una palla, che parla durante gli scambi, che chiama i punti fuori. La Davis e la bolgia. Quella che agli argentini riesce meglio. In casa e anche fuori.

Così, sul 2 pari Del Bonis non ha avuto remore ad avventarsi sul corpaccione da 2 metri e 11 di nonno Karlovic. Ha fatto valere la sua verve giovane, ha giocato con grande solidità spalmando quattro break in tre set all’uomo dal servizio più veloce del mondo, senza concederne uno. Povero nonno trentasettenne, non doveva manco esserci in questa sfida. Poi si è fatto male Coric e l’hanno chiamato. Non era pronto, e lo si è visto.

Ma la finale che l’Argentina non dimenticherà mai, consegna al tennis un bene assai più prezioso. Del Potro è di nuovo il giocatore da prime piazze, quello che si era annunciato come quarto fra i Favolosi ancor prima che Murray si palesasse. Ha messo da parte gli anni zeppi di infortuni, anche lui ha resistito, rimontato, inseguito, sorpassato. È stata una lunga nottata, ma al risveglio il dritto a 150 orari e il servizio fulminante erano ancora lì, sul comodino accanto al letto. Li ha ripresi ed è tornato a mulinarli con felicità pari all’ingordigia. Al pubblico piace. Via Federer, è stato Delpo quest’anno agli Us Open il più atteso. Lo sarà anche nel 2017, e lo spingeranno fino alla Top Ten.

Daniele Azzolini

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