TENNIS – Di Diego Barbiani
US OPEN. “La libertà non si vende per tutto l’oro del mondo”. Questo è il motto della città di Dubrovnik, uno dei punti più a sud dell’intera Croazia nonché uno dei più carini, una perla, una città che racchiude storia, cultura e paesaggi mozzafiato.
Ed in questa località, che persino l’UNESCO si è curata di nominare il centro storico come patrimonio nazionale dell’umanità, è nata e cresciuta la piccola Ana Konjuh. Nata a fine dicembre del 1997, la croata ha trovato durante lo US Open di quest anno il suo primo risultato davvero importante ad alti livelli, uno squillo che cancella una stagione difficile dove i momenti “bassi” sono stati numerosi a causa, soprattutto, di qualche problema fisico di troppo. In più, ha interrotto nella settimana prima del torneo di Stoccarda la collaborazione storica con il suo team composto da Kristijan Schinder e Slaven Hrov, rispettivamente coach e preparatore atletico. Schneider, soprattutto, è la persona con cui Konjuh si legò quando si trasferì a Zagabria, all’età di 10 anni: «Kristijan mi ha dato una mano enorme – ha detto – ma non ha mai allenato giocatori di primissimo livello, e sentivo che bisognava cambiare qualcosa, che quello era il momento per farlo. Da fine aprile ho cominciato a lavorare con Jelena Kostanic, che divenne anche n.32 al mondo. In questi mesi abbiamo lavorato tanto e grazie alla sua esperienza sapeva cosa provavo quando ero in campo e capiva il mio stress ed il mio nervosismo che potevo provare in certi momenti, riuscendo spesso a trovare le giuste parole da dirmi».
Durante gli anni con Schneider Ana è cresciuta e si è affermata come una delle tenniste junior più promettenti nel panorama mondiale. Nel 2013, a 15 anni, ha vinto 2 titoli Slam junior: a Melbourne superò Katerina Siniakova ed a New York Tornado Black. Pure l’esordio nel circuito maggiore fu ottimo, con il successo su Roberta Vinci il giorno dopo il suo sedicesimo compleanno. Eppure, quella che sembrava una scalata rapida verso le posizioni più nobili del ranking si è arrestata dopo qualche mese ad ottimi livelli. Il fisico non le ha mai concesso una tregua, obbligandola a fermarsi dopo l’Australian Open 2014 per 4 mesi a causa di un intervento al gomito. Nel frattempo, l’altra grande promessa nata nel 1997 cominciava a far paura alle grandi.
Belinda Bencic e Konjuh si erano spartite i titoli Slam junior nel 2013, ma la svizzera è stata quella che ha avuto un impatto più forte, nel breve periodo, rispetto all’amica e rivale. Ana, invece, è dovuta passare per un percorso più lungo, eppure ha scelto lo stesso torneo dello Slam per mettersi in luce: lo US Open. Nel 2014 Bencic raggiunse i quarti di finale e fu sconfitta da Shuai Peng, ora è il turno di Konjuh. La svizzera, per arrivarci, superò Jelena Jankovic, lei Agnieszka Radwasnka, 2 tra le migliori protagoniste di questi ultimi anni. Il 6-4 6-4 con cui ha ottenuto per la prima volta in carriera un successo su una top-10 acquisisce valore anche in relazione a dove è stato ottenuto: sul campo centrale di uno dei tornei più famosi del mondo, dove tutto è “excited” ed il pubblico è una marea umana che non sta zitta un secondo, che urla e si fa sentire anche durante i punti, che ti esalta e prende le tue parti se nota che dentro di te c’è qualcosa che li prende. Non sarà il pubblico più competente del mondo, ma è capace di dare una carica non indifferente, la stessa che ha permesso a Konjuh di vivere l’esordio sul centrale di New York senza troppa agitazione: «Per la prima volta nella mia carriera ho giocato sull’Artur Ashe. Pensavo di essere nervosa, ma alla fine è stato solo un piacere. Sono entrata con il tetto chiuso e sapevo che questo mi avrebbe portato dei vantaggi. Ho cercato di rimanere concentrata e prendere tutte le occasioni che Radwanska mi avrebbe concesso, imparando la lezione di Wimbledon». A proposito di infortuni… Quel giorno Konjuh si girò una caviglia mentre cercava di raccogliere una smorzata della polacca perché il piede finì sopra alla palla ed è stata sbalzata in avanti, cadendo sulla stessa gamba che si piegò ad angolo retto rispetto al resto del corpo. Oltre a questo, il suo 2016 è passato anche attraverso un problema alla schiena che le ha impedito di tornare a Nottingham e di difendere il titolo conquistato nel 2016. «Fu un’incredibile sfortuna, perché mi sentivo bene ed avevo cominciato a lavorare con Kostanic sentendo che qualcosa stava cambiando ,e volevo giocare per far vedere questi progressi».
La sua fortuna, nonostante nel frattempo fosse scivolata al n.5 tra le giocatrici nate nel 1997 (davanti a lei Bencic, Kasatkina, Ostapenko e per qualche settimana anche Osaka) deriva anche dalla sua tranquillità in campo. In questo è molto simile sia alla russa che alla giapponese. Quasi non si avvertono quando si muovono sul campo, né tantomeno perdono la calma. Questa compostezza potrebbe portarla ad analizzare meglio le situazioni e capire cosa ci sarà da migliorare, anche se non sembra una ragazza che pensa tanto a quanto è accaduto nel passato. «Durante le partite non ho tanta voglia di pensare a cosa ho fatto, a cosa ho sbagliato. Non vorrei focalizzarmi troppo su un momento in cui ho preso una scelta sbagliata, ma solo pensare a chi ho davanti ed a cosa devo fare per vincere». Forse questo pensiero deriva anche dalla conoscenza che commettere un errore, sbagliare un dritto o un rovescio è nulla rispetto a quanto le accadde qualche anno fa.
Era il 2012, in autunno, quando la sorella Antonia è stata colta da una malattia rara, un’infiammazione al cervello da effetti letali, scoperta pochissimi anni prima di cui solo 50 persone in tutto il mondo ne sono affette. «Era meglio un tumore… Ci è stato detto che era una malattia grave ed incurabile, ci è crollato il mondo addosso» disse in quei giorni Mario Konjuh, il papà. Nel giro di qualche giorno ha perso l’utlizzo della bocca e non riconosceva più nessuno, fino ad entrare definitivamente in coma. I giorni passavano ed Antonia perdeva progressivamente peso. Gli unici organi che funzionavano ancora erano il cuore ed i polmoni. Ana, di riflesso, viveva quei giorni nell’angoscia più totale. Si era cancellata da alcuni tornei e passava ore ed ore in ospedale guardando Antonia ormai ridotta a vegetale. L’ospedale dove era ricoverata è riuscito a mettersi in contatto con 2 medici di Londra che hanno collaborato assieme a quelli croati per cercare di compiere quello che poi è stato definito un miracolo: Antonia, dopo 30 giorni, si è svegliata ed in meno di 2 settimane era già tornata a camminare. Ana, nel frattempo, aveva ripreso ad allenarsi ed è volata negli Stati Uniti dove ha subito trionfato sia all’Orange Bowl che all’Heddie Herr Championship, 2 dei massimi tornei junior del calendario, ed ogni vittoria era dedicata ad Antonia. Poi il 2013, ed il primo titolo Slam a Melbourne.
Ana è una ragazza particolarmente legata all’aspetto religioso. Con grande probabilità, mentre la sorella lottava tra la vita e la morte avrà speso tantissimo tempo a pregare, chiedendo che venisse risparmiata da una morte che appariva certa. Antonia è tornata a vivere, e lei voleva a tutti i costi incidere quel legame con un tatuaggio. «Volevo fortemente un tatuaggio, era un vezzo mio. I miei genitori non me lo permettevano, ma sono riuscita a persuaderli al punto che mi dissero che se avessi vinto l’Australian Open avrei potuto avere quello che desideravo» e così si fece tatuare sul braccio la parola ‘faith’ (‘fede’ in inglese). «Ha un significato enorme per me, perché mi ricorda che bisogna sempre ‘avere fede’, lottare per qualcosa che desideri e non arrendersi, poi ovviamente riguarda anche la mia sfera privata: la mia famiglia, i miei amici, Dio».
Grandissima fan di Roger Federer, tempo fa non aveva ancora voluto presentarsi. «Ho già avuto l’opportunità di conoscerlo ma ho preferito evitare. Vorrei farlo, dirgli che sono Ana Konjuh, e che lui
sappia chi sono». Questo quarto di finale Slam dunque non può che rappresentare un primo passo per una ragazza che vuole crescere ma non bruciare le tappe, arrivare a raggiungere i suoi obiettivi una volta che riuscirà a domare i suoi effetti.
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