Dal nostro inviato a Londra, Luigi Ansaloni
TENNIS WIMBLEDON – Potremmo tranquillamente scrivere il risultato finale e stop, tanto è stata scialba, noiosa e scontata questa partita. Un triplice 6-3 che dice tutto senza colpo ferire. Andy Murray batte Berdych senza alcun problema e conquista la terza finale a Wimbledon (1 vinta contro Djokovic nel 2013 e una persa contro Federer nel 2012), la sua undicesima in totale (una a Parigi, cinque all’Australian Open e due agli Us Open).
E per la prima volta il numero due del mondo non avrà a che fare, in una finale dello slam, contro Federer o Djokovic. Non sappiamo se questo sia un vantaggio oppure no, ma insomma avere di fronte uno alla sua prima finale slam in assoluto (Raonic) piuttosto che dei plurivincitori di Majors, potrebbe essere una carta a favore dello scozzese di Dumblane.
Inutile dire che Murray partire da netto favorito dopodomani sul Centrale, e lo stesso sarebbe stato se ad arrivare all’ultimo atto fosse stato Federer. La bilancia, attualmente, è troppo dalla parte di Muzza: troppo in forma, rinvigorito dalla cura Lendl. Berdych, di cui Lendl avrebbe potuto essere allenatore (il ceco ha praticamente scongiurato più volte il suo connazionale, che evidentemente non ne ha voluto sapere per ragioni che non ci è dato sapere), ha fatto quello che sa fare meglio, cioè il Berdych. Ha avuto palle break, occasioni quantomeno per allungare la partita, ma non c’è stato proprio nulla da fare: nei momenti clou, si è sciolto. E’ un peccato che questo giocatore, che 10 anni fa prometteva molto di più di quella che è stata una comunque ottima carriera, si sia normalizzato. Fino al 2010, proprio quando ha raggiunto la sua prima e unica finale dello slam, proprio qui a Wimbledon, era un tennista sicuramente più discontinuo, ma certamente più devastante quando era in giornata. Se Berdych era “on fire”, era quasi impossibile fermarlo. Peccato, davvero peccato.
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