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Challenge Round. Djokovic, partito l’assalto al Golden Slam

TENNIS – DI FABRIZIO FIDECARO – A Parigi Novak Djokovic ha vinto il quarto Major di fila, come in passato solo Budge e Laver. Ora l’implacabile numero uno, sempre più senza rivali, punta deciso al “Golden Slam”, riuscito nel 1988 a Steffi Graf.

Implacabile. Il più forte, di testa e di gambe. Se sei in uno stato di grazia potrai anche sovrastarlo in certi momenti, ma puoi star certo che alla fine sarà lui a rifilarti una pacca consolatoria sulle spalle dopo averti stretto la mano e ti toccherà osservarlo a distanza mentre torna in mezzo al campo a raccogliere gli applausi del pubblico.

Lo si diceva una volta a proposito di Rafael Nadal, lo si dice adesso di Novak Djokovic. È il tennis moderno, sempre più robotico e privo di emozioni. Il regno dell’efficienza e, sostengono in parecchi, della noia. Ma così è e, volenti o nolenti, dobbiamo tenercelo. D’altronde negare che il serbo sia un campione vero sarebbe impensabile: anzi, ormai figura a buon diritto tra i migliori di ogni epoca. Prima di lui solo Don Budge e Rod Laver si erano aggiudicati quattro Major di fila e non è per nulla azzardato supporre che, alla maniera dello statunitense e dell’australiano, Nole possa compiere l’impresa anche nella medesima stagione. Quella in corso, per esempio.

Chi potrebbe impedirglielo? Forse Andy Murray? Il britannico, giunto all’ottava sconfitta in dieci finali Slam disputate, non sembra avere il carattere e la personalità per battere Djokovic – questo Djokovic – in un evento di tale portata. Ci era riuscito a Roma, dove Novak era stanco e ben meno motivato, ma a Parigi, dopo aver fatto suo il primo set, ha mostrato i consueti limiti tattici e di tenuta mentale. In questo senso la differenza con l’avversario è stata abissale.

Roger Federer è l’altro nome che viene spontaneo citare. L’elvetico veleggia verso i trentacinque anni, classica età da circuito senior, ma si affaccerà a Wimbledon più riposato della concorrenza, avendo saltato il Roland Garros per curarsi le ferite. È chiaro che sull’amata erba londinese Fed-Ex darà tutto, ma basterà per fermare il numero uno, che lo ha già battuto nelle ultime due finali?

A seguire, tralasciando l’acciaccato Nadal, c’è Stan Wawrinka. Il tennista di Losanna ha vinto gli Australian Open nel 2014 e il Roland Garros nel 2015: dunque, quest’anno, seguendo l’ordine logico, sarebbe il turno di Wimbledon… Previsioni “cabalistiche” a parte, Stan ha dimostrato in passato di essere tra i pochissimi in grado di sconfiggere Djokovic in un torneo importante, attaccandolo e mettendolo costantemente sotto pressione: l’unica tattica in grado di pagare, ma che, al contempo, rischia di esporre a figuracce se non si è nella condizione giusta per applicarla.

Murray, Federer, Wawrinka… E poi? Magari a Church Road assisteremo all’esplosione di Nick Kyrgios, un predestinato, uno che in carriera dovrà impegnarsi molto (al contrario) per non vincere cose importanti. Oppure vi sarà il rilancio in pompa magna di Richard Gasquet,  l’exploit di Milos Raonic, o di chissà chi altro. Tutte ipotesi più o meno plausibili, ma, onestamente, se non fosse ancora una volta Djokovic ad alzare il trofeo, sarebbe una grossa sorpresa.

Il rivale più pericoloso del serbo, al momento, potrebbe essere la pressione derivante dall’essere ogni volta il grande favorito, nonché potenziale “slammer”. Abbiamo visto che cosa è accaduto l’anno scorso a Serena Williams, che a New York non ha saputo gestire l’enorme carico di aspettative nei suoi confronti. Da tale punto di vista Nole appare più attrezzato e, comunque, non avrà su di sé il peso di dover tenere fede alle attese di una platea di connazionali. Prima degli US Open, a ogni modo, c’è un altro appuntamento, anzi, due, considerando i Giochi Olimpici di Rio de Janeiro. Già, perché Djokovic vuole tutto: Steffi Graf, unica tennista a realizzare il “Golden Slam”, è avvisata fin da ora.

 

Fabrizio Fidecaro

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