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Raonic e la cultura del lavoro

TENNIS – DI ANDREA SCODEGGIO. Sì è parlato spesso della generazione anni ’90 che dovrebbe, il condizionale è d’obbligo, dominare il tennis nei prossimi anni ed invece continua a smentire questa previsione. Con la mancanza dei risultati è stata bollata come incostante e fannullona, ma quanto il luogo comune supera l’effettiva realtà?

Si tende sempre a criticare il giovane per l’incostanza e non si elogia l’estrosità e la freschezza, ma se su molti talentuosi ragazzi l’indolenza è ancora preponderante, ecco che c’è qualcuno che non ha voglia di alimentare stereotipi e si sta adoperando per diventare un tennista: Milos Raonic.

Il canadese è indubbiamente uno dei pochi che ha dimostrato di voler seriamente investire sul tennis, senza essere affascinato da tutto quello che potrebbe ronzargli intorno. I rotocalchi e le pettinature da moicani non lo competono, ma solo il suo costante miglioramento lo ha portato a giocarsi una semifinale, la seconda in uno slam, in Australia contro il numero 2 del mondo Murray, perdendola per un problema fisico.

Dall’esaltazione passiamo alla mera logica che ci impone ricordare come lo scozzese non fosse al top della forma fisica e mentale, con un bimbo imminente e le preoccupazioni verso la consorte, ma appare ingiusto non considerare l’evoluzione di Milos Raonic.

Sembrano passati secoli quando il canadese si affacciò al grande tennis, proprio in terra australiana, quando da qualificato superò prima il tedesco e sfortunato Björn Phau, il francese Michaël Llodra e soprattutto il n°10 del mondo di quell’anno, il russo Mikhail Youzhny. Ottenuto quell’exploit, il canadese faticò subito a confermarsi su alti livelli.

Difficoltà nel reggere l’intensità di una stagione intera, difficoltà anche nel trovare un binomio giusto con l’allenatore, portarono Raonic a patire il salto di qualità. Facile gettargli la croce addosso, addossargli le colpe di una mancata esperienza e di un’indolenza che non gli apparteneva. La svolta arrivò nel 2014 ed il sodalizio Con Ivan Ljubicic.

Con il croato come allenatore, Milos imparò ad essere più padrone del campo, più aggressivo sia nel servizio che nella chiusura del punto, non disprezzando nemmeno la via della rete. I risultati arrivarono e finalmente il canadese raggiunse la sua prima semifinale slam, a Wimbledon, entrando nell’elite del tennis mondiale.

L’ingresso non fu dei più felici e la dura realtà di quel livello si scontrò con le ambizioni di gloria e soprattutto di un Federer ancora troppo superiore. Risultato: tre set a zero netto. L’amara verità scoraggiò Milos ed i risultati del 2015 stentarono ad arrivare, fino alla conclusione del rapporto con Ljubicic.

Il canadese ripartì da zero e dimostrò come in realtà fosse differente dai suoi coetanei, perché non solo aveva trovato un nuovo coach, ovvero Carlos Moya e mantenendo Riccardo Piatti nel suo staff, ma si era subito presentato al via della stagione con grandi ambizioni.

Vittoria nel torneo di Brisbane, a spese di Federer (una rivincita morale di quella semifinale), e poi il ritorno in un semifinale di slam in Australia, proprio dove tutto era cominciato. In questi mesi Milos ha migliorato la risposta al servizio avversario, fondamentale per potersi impadronirsi subito dello scambio e poter comandare con la pesantezza dei suoi colpi, ma ancora fatica nel rovescio, colpo solitamente fallace e discontinuo.

Vincerà uno slam? Attualmente risulta difficile anche solo ipotizzarlo, visto questo Djokovic e la disabitudine ai match logoranti, specialmente al meglio dei 5 set, ma Milos Raonic è un esempio di come solo con il lavoro si possano raggiungere i risultati sperati. E’ tempo che questa generazione ne segua l’esempio.

Redazione

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