TENNIS – QUIET PLEASE! – Di ROSSANA CAPOBIANCO – Dietro a ogni grande campione, c’è una grande storia. Dietro a ogni storia, c’è qualcuno che ci ha creduto. Prima del campione, un allenatore. Un mentore. Un genitore acquisito. Le storie, tra le altre, di Djokovic e Federer e della loro riconoscenza.
Jelena Gencic e Peter Carter. Sono due nomi qualunque, due nomi di etnia e sesso diverso. Due nomi di non coetanei, che però in comune hanno una cosa: il tennis.
Non solo: del tennis hanno amato poterlo insegnare, renderlo amore, renderlo vita per qualcuno a cui la vita l’hanno cambiata. O in alcuni casi, anche salvata.
E’ il caso di Jelena Gencic, la prima allenatrice di Novak Djokovic; nessuna famiglia a carico, “votata” ad allenare i bambini. Tra questi proprio Nole, ad appena sei anni, che la Gencic preserva dalle crudeltà belliche in ex Jugoslavia ad inizio degli anni 90. Quando i genitori Djokovic e in particolar modo la madre di Novak accompagnò all’Accademia il primogenito, si assicurò che Jelena avesse ben chiaro quanto fosse vivace suo figlio. Ben presto la Gencic si accorse che oltre alla naturale vivacità di un bambino vi era qualcos’altro e decise allora di concentrarsi su di lui. Ex giocatrice di pallamano, si dedicò a Nole e ad altri pochi allievi cercando di racchiudere in una bolla di spensieratezza e sport quei momenti, così vicini al terrore di quello che accadeva fuori.
La Gencic è deceduta tre anni fa: forse è un caso, sicuramente un processo naturale, il fatto che Djokovic dalla sua morte abbia maturato consapevolezza e responsabilità. Sicuramente non una fantasia pensare al suo bacio al cielo come ad un saluto a chi ha avuto il merito, a chi ha l’amore, a chi va la riconoscenza.
Un caso simile e forse ancora più struggente è quello di Roger Federer e Peter Carter. Molti lo sanno, quasi tutti ormai: Peter Carter non è stato il primo allenatore di Roger Federer ma è stato il primo che ne ha scoperto e valorizzato le doti, oltre ad aver svolto, negli anni ad Ecublens lontano dalla famiglia in cantone diverso, un ruolo addirittura paterno. Australiano d’origine, Carter si trasferì in Svizzera e lavorò a lungo per il centro federale che si occupava dei giovani talenti. Con Roger parlava anche e soprattutto in inglese, che per Federer è sempre stata la seconda lingua, vista la mamma sudafricana.
Quando Roger lasciò l’ala protettrice di Peter Carter per un’altra (quella di Peter Lundgren), non smise mai di sentire il suo vecchio mentore, che nel frattempo aveva superato un momento difficile a causa della malattia della moglie, poi guarita. Nel viaggio di festeggiamento (in Sudafrica), Peter morì in un incidente stradale. Roger si trovava a Toronto e molti dicono che quando venne a sapere della tragica notizia corse per più di un’ora senza fermarsi perdendosi per le strade della città canadese. Decise di tornare poi in Svizzera dove si svolsero i funerali. Fu uno scoglio duro da superare ma in qualche modo tutto questo dolore portò via l’ossessione della perfezione e la paura del fallimento tennistico, trasformando Federer nel campione che tutti conosciamo. Ancora oggi, Roger ogni anno in Australia invita, da Adelaide dove risiedono, i genitori del suo vecchio coach: trasferimenti aerei, alloggio, cene e compagnia per la riconoscenza immensa che ha nei confronti dei Carter.
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