TENNIS – Di Diego Barbiani
Solo sabato abbiamo accolto con gioia il primo successo in un torneo WTA Premier di Sara Errani, giunto una settimana dopo quello forse più annunciato di Roberta Vinci. Destino bizzarro: dal momento della loro separazione nessuna delle due aveva vinto un titolo, ed i risultati erano stati ben diversi.
Sara perdeva sempre più terreno dalle migliori (per quanto essere n.10 o n.20 non voglia dire essere forte a scarsa, sia chiaro), Roberta dopo qualche mese ha iniziato una lunga rincorsa che l’ha portata per la prima volta tra le prime 10 del mondo. Alla prima sembrava affiorare sempre più il nervosismo dovuto ad una mancanza di controllo sulla situazione: quello che prima riusciva a dare in campo rendendolo quasi una routine, ora vedeva che faceva molta più fatica a riprodurre. Non bastava solo la classica grinta e capacità di soffrire che, come lei stessa ha ammesso durante la settimana di Dubai sono forse le migliori qualità del suo essere tennista, doti coltivate quando da ragazzina decise di trasferirsi in Spagna.
Cerchiamo di capire meglio il concetto: durante il 2012 ed il 2013 aveva impressionato, sotto quest aspetto. Ha giocato, per fare un esempio, quattro volte contro Maria Sharapova tra la finale del Roland Garros 2012 e la sfida di Miami 2013 senza mai toglierle un parziale, ma la sensazione stando sugli spalti ugualmente come a casa era quella di una giocatrice che partita dopo partita migliorava qualcosa e riduceva il gap. La sfida di Crandon Park, in questo senso, fu davvero significativa. Fu probabilmente una delle più belle partite in assoluto della carriera di Errani, giocata contro un’avversaria di primissimo livello. Ogni punto per Sharapova era una sofferenza, chiudere un game le toglieva anni di vita. Quel giorno per venire a capo del match, nonostante fosse in buonissima forma, dovette star lì con la testa senza mai un calo o veniva sopraffatta. Per ogni punto doveva giocare almeno un colpo in più, in ogni game doveva essere pronta a giocare dieci o dodici punti. E’ in questo aspetto che si vedevano le qualità agonistiche dell’azzurra, che in due ore e mezza di partita non ha mai concesso un punto gratis. Nel 2014 è cominciato un calo, non tanto nel ranking dove l’unica variazione fu l’uscita dalle prime dieci (pur rimanendo tra le prime venti), ma più nel rendimento in campo. Quel picco enorme di rendimento a poco a poco calava e nonostante le soddisfazioni raccolte come la finale a Roma cominciava ad affiorare nervosismo e (talvolta) lacrime. Le abbiamo viste forse per la prima volta a Charleston, quando una diciassettenne di belle speranze la batteva a sorpresa sulla terra (verde, ma comunque terra). Questa è Belinda Bencic, attualmente al n.7 del mondo.
Sara non ama perdere. A nessuno piace, ma a lei particolarmente. Scherzando, a Stoccarda lo scorso anno disse che riuscirebbe a rosicare persino per una partita a briscola. Difficile pensare al contrario, e proprio per questo a Melbourne, durante il primo Slam della stagione, la sua sconfitta contro Margarita Gasparyan aveva lasciato in dote tanti punti interrogativi. L’atteggiamento in sala stampa, ad essere sinceri, poteva anche far pensare ad una giocatrice che aveva smarrito se stessa. Testa bassa, sguardo un po’ perso nel vuoto, mani unite e poca voglia di parlare. «Non so cosa rispondere» è stata la frase più usata, così alla domanda se non fosse un po’ stufa di questo mondo rispose sconsolata: «Forse sì, forse devo pensare ad altro, non lo so…». Umore a terra, e quella che sembrava una semplice sconfitta poteva aprire a nuovi scenari ben più cupi. La sensazione che fosse lei a tirare il fiato dopo anni vissuti con l’asticella almeno all’80% era forte, e che la mancanza di risultati contribuisse a questa malinconia non troppo ben celata.
Due settimane dopo, il difficilissimo weekend di Fed Cup, la nuova eliminazione dalla Francia. Sara è scesa in campo tre volte: tre sconfitte, tre punti persi. Soprattutto, non era mai capitato che perdesse due singolari su due con la maglia dell’Italia. Eppure, nella sfida contro Kristina Mladenovic, aveva provato a lottare ed a star lì il più possibile. Nella fase centrale ha anche avuto qualche chance, ma poi è crollata, cosa non da lei. In sala stampa, altre dichiarazioni un po’ cupe: «Quando il tennis non c’è…». Inutile nasconderlo: le crepe che si stavano scrutando qua e là, in quel momento erano più visibili che mai.
Poi la settimana di Dubai, dove tutto ciò è stato di colpo messo da parte. Un po’ (poca) di fortuna per l’ecatombe mai avvenuta prima di teste di serie, ma la bravura (tanta) di essere lei alla fine a prevalere contro avversarie di varia tipologia: da Yaroslava Shvedova, molto talentuosa ma forse anche la più incostante nel circuito, a Barbora Strycova, giocatrice invece che varia molto ed offre situazioni tattiche sempre differenti.
Sara è riuscita nell’impresa perché quando si sente bene diventa un osso durissimo. Per superarla ci vorrebbe una giocatrice disposta ad una partita come quella di Sharapova a Miami (a proposito, se potete riguardate gli highlights per capire): non avere mai un calo durante lo scambio, essere pronta a giocare 10-20 colpi senza mai farsi prendere dalla fretta di voler chiudere. Chi può riuscirci con costanza per almeno un’ora e mezza o due? Poche, spesso solo le più forti. Così si spiega, probabilmente, il recupero da 1-5 contro Saisai Zheng nel match di primo turno, con la cinese che in tre turni di battuta aveva ceduto un punto su tredici e poi a fatica ha vinto altri game da lì a fine match.
Questo successo ridà ossigeno alla romagnola, perché pur non potendo ancora considerare come risolti i problemi che l’hanno accompagnata negli ultimi tempi (e la sconfitta contro Timea Babos a Doha ci porta verso questa direzione), può comunque funzionare da spinta per non perdere perdere definitivamente quella passione mostrata in tutti questi anni. Non è ancora tempo di pensare ad altro.
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