TENNIS – Fino ad ora non si era mai visto Novak Djokovic. Non è cattiveria o poca considerazione verso il n.1 del mondo, ma nel 99,87% dei casi nel 2015 quando vince è perché domina, con una superiorità disarmante e straripante allo stesso tempo. Le poche volte che ha lottato, negli Slam soprattutto, ha dato vita a partite spettacolari. Come a Wimbledon, quando Kevin Anderson ha dato sfoggio a tutti quelli non compresi tra i Fab Four (e Wawrinka, insomma…) di cosa bisogna fare per provare a battere questo mostro frutto della perfezione atletico-sportiva: essere pronti a giocare quattro/cinque set, almeno tre/quattro ore, a ritmi disumani.
Quel giorno, sul campo n.1 di Wimbledon, si stava materializzando una sorpresa clamorosa e poco aveva a che fare con il mero dato statistico che vedeva il sudafricano mai vincitore contro un n.1 in carica. Due set, i primi, ad un ritmo da far paura a tutti, Djokovic compreso. Bordate al servizio, nessuna paura nel forzare il colpo da fondo campo. Poi la giornata era di quelle giuste, dove il braccio viaggia che è una meraviglia, dove ogni colpo può diventare un vincente. Il serbo stava lì, cercava spiragli con alcuni numeri balistici, ma era costretto a remare e remare nella speranza di un’invenzione, un calo, un piccolo spiraglio dove colpire.
Poteva essere la partita che valeva una carriera, per Anderson, che se alla fine è uscito sconfitto ha da recriminare solo per il terzo set dove il fisico ha chiesto una pausa. Comprensibile, visto che razza di tennis stava esprimendo. Purtroppo, per lui, sarebbe servito un passo in più, cercare di non rianimare così il leone ferito. Recuperato un set di ritardo in una ventina di minuti, è cominciata definitivamente una nuova partita, più equilibrata, ma con l’inerzia che inesorabilmente si spostava dalla parte di Djokovic, capace di prevalere con un 6-7(6) 6-7(7) 6-1 6-4 7-5 e di mettere così le basi per il suo terzo Wimbledon.
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