TENNIS – Di Diego Barbiani
Sfogliando qua e là l’ampio universo dei social network, districandosi tra Facebook e Twitter, sono in pochi quelli che esaltano Novak Djokovic. O perlomeno, sono comunque inferiori a chi sperava in un colpo di coda finale di Roger Federer e si è trovato nuovamente deluso.
E quei pochi temerari, comunque, si lasciano dietro di sé l’inconfondibile scia del pessimismo. Anche il nostro direttore, nel suo pezzo di commento a quella che è stata l’ennesima prova di forza stagionale del serbo, non ha potuto esimersi dall’esprimersi l’interrogativo del ‘cosa avverrà adesso?’. Riprendendo tutta l’intera analisi, “Nole ha scherzato Nadal in semifinale, e ha fatto quasi lo stesso con Federer nell’atto conclusivo. Checché ne pensi il pubblico, la distanza s’è fatta grande. Un baratro profondo. Federer si è procurato tre occasioni nell’anno, per spezzare la tirannia: Wimbledon, Us Open e ATP Finals. La sua stagione, se vi va di brindare con un bicchiere mezzo pieno, è tutta qui. Il dato di fatto, invece, è che quelle occasioni le ha fallite, in termini via via sempre più imbarazzanti per uno che ha saputo condurre il gioco per tre lustri tennistici. Oggi, il divario è troppo ampio, per credere che i tre match vinti quest’anno, negli otto confronti disputati, possano contenere una speranza di sovvertire il dominio.”. E proprio di ‘dominio’ si tratta, così come quello fatto vedere durante la settimana londinese, ancora più disarmante dei precedenti sotto nuovi aspetti.
Primo: un calo, fisiologico soprattutto.
Dal match contro Gilles Simon a Bercy si è avvertita per la prima volta la sensazione di un Djokovic che cominciava a risentire dell’enorme sforzo prodotto durante il 2015. Risultato? Ha vinto il torneo. E’ poi arrivato a Londra, dove ha messo in cassaforte il passaggio del turno con una vittoria di ampie dimensioni su Nishikori e gli è bastato un match poco più che sufficiente per avere la meglio sull’opaco Berdych, il peggiore tra gli otto arrivati al Master, per rendere ufficiale la semifinale. Nulla di straordinario, un livello medio che superava il 50-60%. Come se andasse al risparmio. Contro Nadal e Federer, poi, il capolavoro.
Secondo: la gestione oculata delle energie.
Djokovic si è gestito in questa fase finale di stagione come meglio non poteva. Lui stesso ha dichiarato di aver continuato a macinare un ottimo tennis anche dopo lo US Open grazie ad un’attenta gestione, sapendo soffrire, regalando qualcosa di troppo quando poteva (leggasi il match contro Federer nel girone) e premendo sull’interruttore ‘ON’ quando veramente c’era l’occasione. Zero palle break concesse al povero Nadal, che per quanto stia provando a riemergere dalle sabbie mobili (e già ci sono molti miglioramenti) al primo match complicato contro Ferrer ha comunque fatto riemergere diversi problemi che lo hanno accompagnato nel 2015, cinico e crudele anche con Federer.
Nel 2011, il primo anno di dominio serbo, la fase finale di stagione fu quella che diede il via alla rincorsa di Federer per un interregno al n.1 del mondo tra giugno ed ottobre 2012, che lo portò alle 300 settimane in vetta al ranking, mentre Djokovic soffrì pesantemente la stanchezza accumulata arrivando al Master da n.1 ma uscendo già ai gironi con sconfitte da Ferrer e dal connazionale Janko Tipsarevic. Ripensarci oggi, sembra di dire delle eresie.
Quattro anni dopo troviamo un giocatore maturato e consapevole di avere questo margine enorme di cui parlava anche il nostro direttore. In passato, il serbo ha sempre sofferto i grandi battitori. Ha perso due volte da Isner e contro Karlovic ha un saldo negativo nei confronti diretti. Sul cemento di Pechino, in un torneo dove non ha ceduto più di tre game a set, il gigante statunitense è stato spazzato via con un duplice 6-2.
Per Federer la magra consolazione è che ad ormai 34 anni e mezzo è forse l’unico indicato come possibile rivale, vista soprattutto la freschezza fisica con cui è arrivato a questo punto della carriera. I loro confronti diretti dicono che fin dal 2006, anno del loro primo incontro, il serbo non è mai stato avanti. Il 2016 pare l’anno buono, almeno seguendo il trend degli ultimi 2-3 anni, a dimostrazione che quanto detto ieri dal serbo (“Ho dovuto cambiare la mia tattica per poter giocare contro di lui”) rispetto alla partita del Round Robin potrebbe essere applicato anche alla sua carriera, per arrivare al livello di chi, prima, era considerato quello che è lui adesso. Irraggiungibile.
Poi c’è Nadal. Apparso in grande spolvero dopo due partite e che già contro Ferrer ha cominciato a scricchiolare. Guardando ai lati positivi, dopo un 2015 così disastroso, c’è la consapevolezza di aver ritrovato la voglia di combattere ed una posizione più offensiva in campo. Ora quando spinge col dritto difficilmente lo manda contro i teloni. Il problema, semmai, deriva dal momento del match. Come già avvenuto contro Wawrinka a Parigi, il Nadal di fine stagione ha ancora diverse pause nei momenti più inattesi (da 3-0 e servizio a 3-4 contro Ferrer) e fa fatica a chiudere il parziale se si va in lotta (da 6-5 e servizio a 7-6 Ferrer).
Cosa rimane, poi? Poco altro. Davvero. E questo forse è il tasto più dolente. Parliamo di Wawrinka, che per il terzo anno consecutivo si è confermato tra i quattro semifinalisti. Parliamo di Murray, alla quarta eliminazione su sette ai gironi. Parliamo di Nishikori, che più di così non poteva fare (e non solo perché affrontava sia Djokovic che Federer). Parliamo di Ferrer, sempre da apprezzare per l’impegno ma che da solo contro questi ‘mostri’ può fare ben poco senza qualche aiuto da parte dell’avversario di turno. Parliamo di Berdych. O forse no.
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