TENNIS – Dal nostro inviato a New York Daniele Azzolini
È un’impresa a nome collettivo, il Grand Slam di Serena. Ne sono tutti coinvolti, tutti si danno da fare. Familiari e staff, il pubblico, New York, l’America intera. Venus la sgrava della Bencic, che fra le poche era una che ancora poteva darle fastidio.
L’ha battuta a Toronto, non più di tre settimane fa, e si presumeva che un nuovo incontro ravvicinato spostasse il livello dello sfigmomanometro verso vette tali da far decollare la Sister come un’ogiva. Via, tolta di mezzo. A suon di servizi assassini, per giunta, che sono una delle specialità di casa Williams. Le sorelle lavorano in coppia, e vedrete che se arriveranno a contatto, Venus troverà il modo di farsi da parte. Anche se non si dovrebbe dire…
La pressione è il problema più evidente. Serena è da Wimbledon che prega di non opprimerla, e ora che non può più evitarlo, appare in bilico fra desideri contrastanti. Quello di impossessarsi della Storia, riempirla del suo nome, dei suoi vestiti da grande coatta (rimarchevole, quello di ieri, con i disegni di un pitone che si è appena pappato un coccodrillo), e delle sue forme che avrebbero reso felice un Fernando Botero, l’artista del sovrabbondante; e l’altro, umanissimo, di mandare tutto a quel paese. Nascono da questa irrisolta vertenza le sue strampalate partite, nelle quali Serena appare a dir poco multiforme, passando in successione contraria a ogni principio fisico dallo stato solido a quello gassoso, senza però mai liquefarsi del tutto. Urla, smania, si agita, commette errori che per un ennecì di un qualsiasi circolo equivarrebbero a sei mesi di sfottò assicurati. Un disastro, la Serena. Ma anche il suo esatto contrario, perché d’improvviso diventa seria, impassibile, lucidissima e gioca sull’orlo delle righe con un coraggio che mette a disagio qualsiasi avversaria. Farsela sotto e mostrare di che pasta sei fatta… Serena è l’ossimoro tennistico meglio riuscito da sedici anni a questa parte.
Ha voglia di vincere, e manderebbe volentieri tutto all’aria. Una bella sfida, tutta sua, mentre la concorrenza, d’intorno, cade da sola. Lei si occupa della contingenza, che altro potrebbe fare. Le pongono di fronte Bethany Mattek Sands e lei la batte, alla fine, ma solo perché quella non ha il passo per reggere gli strattoni che Serena impone al match. Ma il primo set incantevole della ragazza peggio vestita del circuito (ebbene sì, Bethany riesce a superare la stessa Serena in fatto di mises oscene), mostra una Williams quasi prona, incapace di mettere in fila due colpi che abbiano un qualche costrutto. Eppure Serena resta lì, incistata nel match, continua a sbagliare finché non trova la misura dei suoi stessi errori. Lo fa per tempo, allo scadere del secondo set, e dopo dilaga.
Mi aspettavo molte cose da questa rincorsa al Grand Slam. E sapevo in cuor mio che se la Williams avesse potuto godere di un’attenzione mediatica pari a quella ricevuta da Connolly, Court e anche dalla Graf (le tre iscritte al Club delle Prime Donne), quando il tennis non fregava niente a nessuno, o solo ai tedeschi, questi Us Open sarebbero stati una passeggiata. Quel che non mi aspettavo è che la caccia al primato si condensasse in un’unica partita, bellissima a suo modo, ma perfida… Serena contro Serena.
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