TENNIS – ‘4UGPa’… For you GrandPa. Gli “sms” affettuosi di Jack al nonno malato (scomparso subito dopo il Roland Garros), hanno fatto scoprire un nuovo attor giovane del tennis Usa. Viene dalla periferia borghese del Nebraska: buoni sentimenti, famiglia e (qualche) voglia di riscatto. Il ragazzo che scrive messaggi sulle scarpe da tennis.
Di Dario Torromeo
Jack Sock. Nome e cognome secchi come colpi che raggiungono il bersaglio. Pe-Pam! Leggo e mi sembra di subire un uno-due da ko. Questo ragazzone un po’ in sovrappeso, capelli castano rossicci e una dentatura perfetta, è l’ultima speranza americana. Laggiù nel tennis sta accadendo quello che accadeva alla boxe molto tempo fa. I neri erano i re dei pesi massimi e il popolo vedeva in ogni giovanottone WASP (bianco anglosassone protestante) “la Grande Speranza Bianca”. Da troppi anni gli Usa vivono di ricordi. Arthur Ashe, John McEnroe, Jimmy Connors, Andre Agassi, Pete Sampras. Bei tempi, vero guys?!
Dal 2003 uno Slam non viene messo in cassaforte da uno statunitense. L’ultimo è stato Andy Roddick agli US Open. Roddick, un figlio del Nebraska. Proprio come Sock. In momenti difficili ci sembra di vedere una luce abbagliante anche dove c’è una piccola fiammella. Ma alla fine dei giochi, questo ragazzone resta comunque l’unico uomo nuovo in un Roland Garros dei soliti noti. Viene da Lincoln, meno di 280.000 abitanti a sud del Nebraska, dove è nato ventidue anni fa. Ha un papà che lavora come consulente finanziario e una mamma casalinga. Ha anche un fratello, Eric, di lui parlerò tra poco.
A Parigi ha battuto Dimitrov, Carreno Busta, Coric e si è fermato davanti a Rafa Nadal. Si è fatto notare per le cannonate di dritto e il sorriso stampato sulla faccia. Ma anche per qualche affettuoso atteggiamento. Chi ha guardato con attenzione le sue scarpe da tennis, ha notato una scritta proprio all’altezza del tacco, un centimetro sopra la suola.
4uGPa. For you Grandpa. Per te nonno. Su Twitter ha postato la spiegazione di quel messaggio. “Sarai con me sul campo qui a Parigi, nonno. Sii forte nella tua battaglia contro l’Alzheimer. Ti voglio bene”. Il lato bello della provincia americana, il sentimento che affonda la sua anima nelle radici, nei ricordi. Dopo ogni partita Jack chiamava nel centro di Atlanta dove quell’anziano signore era ricoverato. Nonna e zio erano lì, accanto a un uomo che provava a difendersi da un male terribile. Lui chiamava e loro gli mettevano il telefono vicino all’orecchio. «E io speravo di sentire qualche parola, speravo che lui sentisse le mie. Non poteva parlare, aveva dei tubi nella gola, ma stava lottando. Aveva perso molto peso e non aveva un bell’aspetto». Poi, alla fine del Roland Garros il nonno se n’è andato per sempre. Jack gli ha dedicato l’ultimo messaggio via Twitter. “Sei stato molto amato e ci mancherai ancora di più, nonno. Sarai sempre con me. RIP ❤ Ti amo”.
Jack viene da una famiglia felice, ha sempre vissuto in un clima di serenità economica, ha avuto la fortuna di fare dello sport il proprio lavoro. Un altro esponente dell’alta borghesia approdato nel tennis. Sono in molti a credere di avere individuato la causa dell’astinenza da successo proprio in questo particolare aspetto del problema. Non c’è reclutamento nelle inner city. E non nel senso di aree ad alta densità di popolazione, ma in quello di zone depresse, popolate da afroamericani e ispanici. Lì dove la fame scatena rabbia e bisogno di rivincite. È in quelle zone che football, basket e baseball pescano i campioni di domani. Il tennis no, continua a essere dominio della borghesia anche in un periodo in cui il quadro sociale generale è mutato.
Negli anni Ottanta e Novanta erano pochi Paesi a dividersi il mondo. Due di questi sembravano tennisticamente quasi scomparsi, parlo di Australia e Stati Uniti, poi l’Australia si è ripresa. Oggi ci sono nuove realtà in arrivo da Serbia, Giappone, Repubblica Ceca. Addirittura l’odiato Canada ha piazzato uno di loro nei primi posti del ranking. Il mondo della racchetta è diventato più cosmopolita, bisogna sgomitare per trovare un posto a tavola. Non bastano la tradizione o i meriti acquisiti nel passato per essere eletti protagonisti. Gli Usa sono fuori dalla Top Ten e dai titoli che contano. Così a ogni piccolo rumore ecco che si scatena l’assalto dei media. È stato così per Ryan Harrison, è stato così per Donald Young.
Ora è la volta di Jack Sock, già definito “futuro fenomeno” e “nuovo Andy Roddick”. Prima il ragazzo sentiva il peso di tutta questa pressione, ma all’inizio del 2015 è accaduto qualcosa che gli ha cambiato totalmente il modo di affrontare la vita. Ora sembra che una nuova filosofia detti ogni passo di questo sorridente e simpatico giovanottone. A gennaio era in ospedale a Filadelfia, aveva subito un’operazione per uno strappo muscolare nella zona pelvica. Poi se ne era andato a Kansas City per la riabilitazione. È stato lì che ha ricevuto una drammatica telefonata da parte di Pam, la mamma.
«Jack, devi venire a casa».
«Cos’è successo? Mi spaventi».
«Eric non sta bene, vieni subito».
«Mamma, vuoi dirmi che sta succedendo?»
«Era andato in ospedale per una normale visita di controllo. Aveva un forte mal di gola. L’hanno visitato e hanno scoperto che c’era una brutta infezione a entrambi i polmoni. Lo hanno riempito di medicinali, l’hanno subito portato in terapia intensiva. Dicono che se fosse arrivato un giorno dopo sarebbe morto».
«Ma adesso come sta?»
«Male».
«Arrivo».
Jack si era precipitato. Eric era da solo in una stanza asettica, sdraiato sul letto, non muoveva neppure un muscolo. Sembrava non dare segnali di vita. I due fratelli sono molto legati. Hanno trascorso l’intera fanciullezza muovendosi con la complicità di chi ha legami profondi. Divisi da due soli anni, hanno sempre giocato sugli stessi campi. Tennis, golf, basket. Interminabili sfide a tennistavolo. Poi qualcuno ha notato Jack mentre disputava un torneo di tennis a Kansas City. Quel signore si chiama Mike Wolf ed è l’uomo che ha convinto la famiglia a trasferirsi e ad affidargli il ragazzino. Da subito è sembrato che il signor Wolf avesse ragione.
Jack da junior vinceva tutto. Ha messo assieme un record di 80-0 con quattro titoli dello stato consecutivi. Uno di questi l’ha conquistato battendo proprio Eric in finale. E adesso il fratello era lì, su quel lettino d’ospedale. Jack ha sempre visto il lato positivo delle cose. «Se non mi fossi fatto male, ora starei a giocare gli Australian Open e non ce l’avrei fatta a correre qui per essere accanto a mio fratello». È andata bene. Dopo dieci giorni da incubo, Eric è guarito. Nei tornei di Indian Wells e Miami, dove ha sconfitto Fognini, in segno di riconoscenza per il “regalo” ricevuto ha giocato con un paio di scarpette con su scritto: “For you, Eric”. C’è chi per raccontare la propria vita si fa i tatuaggi, Jack ha più senso pratico e si limita ai messaggi sulle scarpe.
Il dritto è senza dubbio il punto di forza del giovanottone (1.90 per 86 chili). Ma anche con il servizio in kick non scherza. I colpi dell’americano, carichi di spin, provocano un rimbalzo alto difficile da controllare per chi deve rispondere. Recentemente è anche migliorato a rete e ha acquisito una maggiore maturità. È più concentrato, ha meno rabbia. Troy Hahn, il coach, si è preso gran parte del merito di quest’ultimo progresseo. Ma io credo alla versione di Jack, i meriti vanno divisi. n>«Dopo aver capito quanto breve possa essere la vita e come si rischi di lasciarla per quella che ci sembrava una stupidaggine, sono cambiato. Da quando ho riabbracciato mio fratello, ho capito che non posso disperarmi per un errore sul campo da tennis. Gioco pù sciolto, con meno pressione. Forse per questo rendo di più».
Uno Slam l’ha già vinto. Ma era in doppio, a Wimbledon 2014 in coppia con Pospisil. Ha centrato il primo titolo Atp quest’anno a Houston battendo in finale Sam Querrey, è nell’orbita dei Top 30 e minaccia di diventare a breve il leader del movimento americano. Deve farne ancora di strada. Qui si tratta di vedere se il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto.
Non so se diventerà un campione, non credo, ma so per certo che è una ventata positiva. Un uomo semplice che non si nasconde dietro ipocrisie, gusti bizzarri o muri di silenzio. Parla volentieri e ha scelte decisamente tradizionali. Justin Timblerlake per esempio, ma anche i Chipotle: una catena di ristoranti messicani a cui fa ordinazioni tramite twitter. Ha pianto guardando Titanic, tifa per i Kansas City Chiefs nella NFL e per i Nets nella Nba. Si allena a Saddlebrook, Tampa, Florida. Non ci sono fidanzate nella sua vita. È single. L’unica presenza fissa in giro per il mondo è quella di Eric, il fratello. Non gli pesa il fatto che ogni cittadino del Nebraska, ma anche molti negli States, lo considerino un predestinato. A lui piace giocare a tennis, il fatto che a 22 anni questo sport gli abbia già fatto guadagnare circa 2,5 milioni di dollari è un bonus che aumenta il piacere. Gli Stati Uniti aspettano da troppo tempo. Jack Sock riuscirà a regalargli qualche soddisfazione. Io tifo per lui, è troppo simpatico.
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