La parola del Direttore

Ace Cream / Arnaboldi, un tennista chiamato Grimpeur

TENNIS – Dal nostro inviato a Parigi Daniele Azzolini

Uno così non merita rappresentazioni dolenti, da catalogo delle occasioni mancate. Se il tennis gli ha dato poco, finora, è lecito pensare – per una volta – che sia il tennis ad aver sbagliato, dirottando su altri vittorie e fortune che egli avrebbe meritato.

«E comunque», assicura, «me la sono goduta parecchio anche così», razzolando a lungo nelle retrovie, dove lo sport milionario del Roland Garros vive in ristrettezze, zero soldi e pochissimi onori. Andrea Arnaboldi è molto più del “ragazzo dei Future”. È uno specialista. «Un operaio specializzato», sorride. Lui è un grimpeur. Uno scalatore. Uno che il tennis lo affronta in salita, lo scala, lo scavalla e poi si lancia in discesa. Conosce l’arte del succhiare la ruota all’avversario, sa come sfruttarne l’aire, ne coglie gli ansiti, ne percepisce le sofferenze, e lì lo accosta, gli resta al fianco, ne condivide le ansie, anime gemellate dalla fatica, poi lo lascia. E se ne va…

Questo suo breve Roland Garros, il secondo che gioca in tabellone, il primo che gli porge una vittoria, lo ha mostrato al mondo e finalmente introdotto al mistero dei cinque set. Meglio tardi che mai. Andrea, milanese e canturino, di anni ne ha ormai ventotto. Tanti, pochi, cosa importa? È uno specialista, tenetelo a mente. E i grimpeur sono agili, scattanti, spugne che assorbono ogni stento. Mancini? Be’, Andrea lo è. «Mancino dal tennis vario», si descrive.

Eccolo infatti alle prese con un avversario che prima lo tiene a bada, due set addirittura, e nel terzo accarezza addirittura un match point. Ma poi lo subisce. Si chiama James Duckworth, la selvaggina di giornata. L’anatra coraggiosa, se accettate una traduzione poco meno che letterale… Andrea lo ghermisce, lo costringe a volare basso, lo raggiunge e lo impallina. Cinque set, quattro ore, trecentosettantre punti giocati, tre tie break. Ma l’ultimo set a zero. L’anatra è finita laccata.

Attenti, però, quella di ieri è solo la terza rivelazione arnaboldiana, di questo torneo che il nostro ha trasformato nei suoi Pirenei. La prima è giunta nelle qualifiche, sotto forma di record. Avversario il francese Pierre-Hugues Herbert (lo ricordate in finale a Melbourne, contro Bolelli e Fognini?): un set per parte, ma nel terzo non c’è tie break, e i due ci prendono gusto, la disputa diventa infinita. Ventisette a venticinque per Arnaboldi, quattro ore e trenta minuti, 71 game in tutto. Mai nessuno era rimasto tanto a lungo in campo in un incontro da tre set valido per uno Slam. Record precedente, 4 ore e 26 minuti per 66 game. E qui comincia un’altra storia. «La storia di uno che ce la mette tutta», dice. E provate un po’ a dargli torto? Di lì a poco, infatti, prende forma la seconda rivelazione. È il turno che mette in palio un posto in tabellone, Andrea lo affronta contro l’argentino Trungelliti. È ancora imbardato dalla fatica, e va sotto: 7-5, 5-2. A un passo dalla sconfitta, si rianima, torna a spingere sui pedali. Recupera. Vince il secondo senza più perdere un game, e nel terzo ne concede appena tre.

«È tanto che mi sbatto. Ora so che dentro ho ancora tante cose da dare, più di quanto pensassi». Dopo Duckworth avrà Cilic, l’ultimo vincitore degli Us Open, «ma sono fiducioso». Vuole entrare nei cento. Deve scalare 88 posti per farcela. Ma che cosa volete che sia, per un grimpeur?

 

Daniele Azzolini

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