TENNIS – QUIET PLEASE! – Di ROSSANA CAPOBIANCO – Torna la stagione su terra e conferme che arrivano anche dal cemento, dai mesi scorsi, ripensando a un anno o a qualche anno fa: ci sono quelli che rimarranno Godot per sempre, perché amano essere Godot, perché non possono essere altro. Gulbis e Janowicz sono due esempi massimi.
Per giocare a tennis, serve che il tennis piaccia. Che sia una passione, che diventi uno scopo di vita.
Serve che si abbia predisposizione, un particolare talento, a vari livelli. Serve avere o costruirsi un fisico da atleta, specie nel tennis moderno.
E poi serve la testa. Non soltanto uno spirito di sacrificio e una concentrazione pressoché costante, ma anche e soprattutto un po’ di sale in zucca. E in modi diversi, Gulbis e Janowicz hanno dimostrato di averne poco; almeno, per quello che serve alla loro professione.
Brutale forse emettere giudizi su persone che in fondo non si conoscono, ma il tipo di professionista ormai si palesa abbastanza chiaramente. Nessuno vuole gli sgobboni tutti uguali e inquadrati, Dio o chi per lui ce ne scansi, è la morte del bello dello sport, quel romanzo immaginario che ripercorriamo ogni volta che agganciamo un evento ad un altro. Ce lo abbiamo tutto in testa e se non ci fossero i ribelli, i diversi, i “chi se ne frega”, somiglierebbe al Libro Cuore che non ha tra le proprie qualità quello di essere un romanzo avvincente.
E allora Ernests può anche dare importanza al proprio nome, far parlare tutti delle risposte dirette in conferenza stampa, della sua irriverenza (legittima, come legittima anche la critica ad essa) contro lo status dei top player, nei confronti del circuito, nei confronti del mondo intero, da reietto che è abituato ad essere; non cambia il fatto che al suo potenziale tennistico (non da fenomeno ma da ottimo colpitore) non ha mai saputo abbinare un’ambizione e un’intelligenza che gli abbiano permesso almeno un anno a grande livello. I paragoni con Safin (che gli Slam li ha vinti, che è stato numero uno) stanno a zero.
Eppure quel momento pareva essere arrivato: lo scorso anno, quando fu “minacciato” dal padre imprenditore, spesso presente a vedere e seguire il figlio, di uffici ai piani alti e sedie troppo comode per una noia e una routine che farebbe fatica a sopportare. Si mise al lavoro e pur con i suoi difetti tecnici (il dritto da surf su tutti) riuscì ad innalzarsi fino al numero 5 della Race, arrivando in semifinale al Roland Garros -sulla superficie che ama di più- battendo un buon Roger Federer, complice di giocate sbagliate in momenti decisivi del match. Il livello comunque era il suo. Pochi giorni dopo, però, dopo aver perso da Djokovic, scherzò sul fatto che quei soldi vinti li avesse persi tutti al casinò insieme al cugino. Vero o falso che sia (è più probabile fosse la solita provocazione) da allora è totalmente scomparso e il match contro Haider-Mauer a Monte-Carlo, (discreto ma battibilissimo giocatore austriaco), sotto gli occhi del nuovo allenatore Enqvist, ci ha ricordato che esiste una distanza notevole nel giudizio tra quello che vorremmo che fosse e quello che realmente è.
Come per Jerzy Janowicz, dalle caratteristiche tecniche forse leggermente migliori a quelle del lettone, un fisico potenzialmente devastante, una prima e una seconda palla di servizio da fare invidia a molti ma che manca di continuità minima. Anche per infortuni che però si è cercato o è andato a peggiorare, mancando completamente di buon senso. Nel 2013 esplose completamente ma da allora tra allenamenti non-sense con servizi a 230 km/h per più di mezz’ora (addio spalla) e micro-fratture al piede ignorate, programmazione sconsiderata. E così due buoni prospetti vanno allegramente a quel paese.
Come le nostre attese, quelle dei Godot che sguazzano nell’esserlo, che non sentono bisogno o ambizione di tornare o di arrivare. Mai.
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