TENNIS – Di Diego Barbiani
Da anni, ormai, la realtà della Coppa Davis subisce frecciate più o meno velate da chi vorrebbe un rinnovamento del format giudicato troppo vecchio, chi la vorrebbe spostare ad una volta ogni due anni per darle più lustro o chi invece proprio vorrebbe levarsela tra i piedi. Ancora una volta, però, dopo un weekend di emozioni così dense verrebbe solo da pensare che in realtà la bellezza di questa competizione sia più che mai viva.
Prendiamo un giocatore protagonista di questo fine settimana: Joao Souza. Non aveva mai giocato un incontro al quinto, in questo weekend è stato chiamato a due incontri sulla lunga distanza. Cinque ore il primo, addirittura sei e tre quarti il secondo, entrato di diritto nella storia di questa ultracentenaria della manifestazione. Al di là del tifo o della simpatia, non è una cosa straordinaria? Giocare in Argentina, con la maglia del Brasile, è forse uno degli onori che qualunque brasiliano vorrebbe. In qualsiasi sport. La rivalità che si respira è fortissima e tocca ogni ambito, Joao avrebbe continuato a salvare match point ed a tentare un assalto al suo avversario fino all’ultima goccia di sudore nonostante dal 4-4 del quinto set abbia avuto un netto calo fisico. Non esisteva la parola “arrendersi”, per lui ma allo stesso tempo per Mayer, che continuava ad accusare fitte alla spalla destra, si faceva massaggiare a bordo campo e mentre avveniva con l’altra incitava il pubblico a dargli ancora più energia.
In nessun altro contesto si può trovare uno spettacolo così bello ed emozionane. Quasi sette ore immersi nel caldo torrido dell’estate sud-americana, con il sole che non accennava a tregue e picchiava sulla testa dei due protagonisti ed il pubblico che cantava, cantava e cantava. Alla fine erano tutti lì, a gremire gli spalti fino all’ultimo posto, e saltavano, e si abbracciavano. Uno dei loro cori più forti recita così: “Oh, Argentina, es un sentimento que no puedo parar… oeoeoeoe oeoeoeoa… oeoeoe cada dia te quiero mas!” (“Oh, Argentina, questo è un sentimento che non posso fermare, ogni giorno ti amo sempre più!”). Chiunque vorrebbe giocare in uno stadio così caldo, sentire i brividi per l’accoglienza che riservano ad ogni giocatore: per anni si sono fatti trascinare da David Nalbandian e Guillermo Coria, hanno visto Guillermo Vilas, hanno pianto con Juan Martin Del Potro e José Acasuso in quella finale tragica a Mar Del Plata, ora si trovano giocatori ammirevoli come Mayer e Carlos Berlocq, privi però dell’estro che solo il fenomeno possiede, eppure la loro passione è intatta. “Cada dia te quiero mas!”, chiunque sia a scendere in campo con la maglia albiceleste.
Oppure James Ward, che per la seconda volta ha portato la Gran Bretagna ai quarti di finale con la vittoria incredibile sul primo giocatore del team USA: lo scorso anno Sam Querrey, quest anno John Isner. Contro quest ultimo, sembrava quasi spacciato. Due set giocati al massimo, ma l’altro ha sempre avuto l’ultima parola. In condizioni “normali”, su un campo qualcunque di uno dei quattro Slam forse avrebbe mollato la presa e concluso con una sconfitta comunque dignitosa. In Coppa Davis invece è tutto completamente diverso. Non gioca più per te stesso ma sà che con lui in quel momento ci sono amici, parenti, persone mai viste prima che in quel momento dalle tribune continuano ad incitarlo. Poi guarda nel suo angolo e vede Andy Murray che non sta zitto un secondo. E’ il giocatore britannico più importante, il simbolo della squadra, in quel momento però è uno dei tanti che si danna l’anima per tenerlo su di morale. Poi le bandiere, centinaia di bandiere della tua nazione che vengono agitate attorno a lui ogni volta che mette a segno un punto. Per un giocatore come lui a cui manca sempre qualcosa per essere effettivamente tra i primi 100 (anche se sul veloce potrebbe valere i primi 80 del mondo) queste sono situazioni pazzesche, dove entra in una bolla e si trasforma, riprendendo lo svantaggio e concludendo la sua impresa tra la standing ovation di tutto il palazzetto di Glasgow e l’abbraccio bellissimo di Andy Murray che gli ripeteva: «Sono davvero fiero di te! Sono davvero fiero di te!».
A proposito dell’essere fieri, spendiamo qualche parola sugli svizzeri? Si sono trovati ad affrontare una trasferta in Belgio dove dovevano essere spazzati via come la polvere. Oltretutto, prima del sorteggio Jann Martì ha lasciato il ritiro perché non preso in considerazione (a suo dire) da capitan Luthi. Così si sono trovati in tre: Adrien Bossel, esordiente assoluto a 28 anni, n.331 del mondo e con un pacemaker; Henri Laaksonen, 23 anni e n.344; Michael Lammer, l’unico superstite della finale di Lille, che però non ha mai avuto fortuna in singolare ed il ranking lo classificava al n.567. Nonostante mille e più problemi, ognuno di loro ha messo l’anima in campo ed all’inizio del quinto singolare erano ancora in corsa per un approdo ai quarti che avrebbe avuto forse un clamore superiore anche allo storico successo in terra francese. Laaksonen ha firmato due vittorie al quinto set una più palpitante dell’altra e Bossel e Lammer erano anche andati avanti di un set nel doppio. Decine e decine i messaggi che correvano sui social network di appassionati elvetici comunque felici ed orgogliosi di quanto fatto. Stan Wawrinka esultava come se fosse in panchina con loro, Timea Bacsinszky si è svegliata nel cuore della notte a Monterrey per non perdere l’ultima giornata quando lei stessa, quel giorno, ha giocato una finale (poi vinta su Caroline Garcia) chiusasi all’una.. di lunedì mattina.
Poi c’è l’orgoglio di Barbados (non per niente “orgoglio ed operosità” è il motto della popolazione), un’isoletta sperduta nei caraibi che al sabato era avanti 2-1 contro la Repubblica Dominicana e che ha vissuto per ventiquattro ore con il sogno di poter giocarsi l’approdo agli spareggi per il World Group. E quello di Jurgen Melzer, che al venerdì aveva perso il primo singolare per l’Austria contro la Svezia ed alla domenica ha gioito come poche altre volte vedendo il proprio fratello Gerald battere sonoramente Christian Lindell per il 3-2 che ha portato l’Austria a giocarsi contro l’Olanda un posto agli spareggi di settembre.
Scendendo nelle serie minori si scoprono mille storie diverse, come i gemelli Podzus che si fanno in quattro ad ogni gara della Lettonia perché consapevoli di essere scelti sia per i singolari che per il doppio, e non poche sono le volte in cui si ritrovano in campo per almeno quattro ore. Questo fine settimana Janis, n.675 del mondo, ha lottato come un leone contro Dimitar Kuzmanov uscendo sconfitto 4-6 6-3 3-6 6-1 10-12 malgrado le trecento posizioni a separarli in classifica. Oppure si può raccontare l’impresa della Nuova Zelanda, che ha battuto la favorita Cina seppur con una squadra per larghi tratti inferiore. I primi tre incontri sono durati tutti cinque set, per un totale di oltre undici ore di gioco, ed alla fine sono stati gli oceanici ad esultare nonostante le quasi 150 posizioni che separavano il terzo singolarista asiatico rispetto al loro primo giocatore (348 contro 497).
La Coppa Davis è urla, gioia, tensione, lacrime, festa. Non occorre avere il grande campione in campo per sentirsi parte dell’evento. Ad Astana, teatro di uno degli scontri più rocamboleschi del fine settimana, un kazako sulle tribune, dopo l’ultimo ace di Alexandr Nedovyesov, avrà visto il suo urlo strozzato in gola dalla richiesta del falco di Fabio Fognini. Avrà messo una mano sulla spalla del suo vicino di posto che forse neanche conosceva, ma in quel momento sapeva benissimo che stava provando gli stessi suoi sentimenti. Per una questione di qualche millimetro, ma molto probabilmente anche meno, quel servizio era dentro. «Ce l’abbiamo fatta», avranno urlato con la voce rotta dalla gioia in un abbraccio entusiasta.
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