TENNIS – di Federico Parodi
Chissà in quanti credono nelle favole e avrebbero preferito che fosse Luca Vanni a trionfare nella finale di San Paolo al posto di Pablo Cuevas. Eppure, anche il 29enne uruguagio è protagonista di una storia altrettanto significativa, caratterizzata da cadute e resurrezioni. Una storia che vale la pena ripercorrere.
Un operaio prestato alla racchetta. Pablo Gabriel Cuevas nasce in una terra di mezzo, al confine tra Argentina e Uruguay, da padre argentino e madre uruguayana. Deve i suoi natali alla città di Concordia, ma è da sempre legato a Salto, sull’altra sponda del Rio Uruguay. E a Salto – la seconda città per popolazione dopo la capitale Montevideo – sono nati e cresciuti anche Luis Suarez ed Edison Cavani, due giocatori simbolo della nazionale Celeste. Il calcio è lo sport più popolare del paese, il tennis uno dei tanti. Pablo gioca a pallone con gli amici e guai a perdersi una partita della nazionale. Ma è dall’età di sei anni che impugna la racchetta, che non baratterebbe per nessun altro strumento al mondo. Il suo sogno, da sempre, è quello di fare la storia del suo paese, di diventare il migliore tennista uruguagio di tutti i tempi.
Cuevas è un predestinato. “Sacrificio” e “rock and roll” le due parole chiave che l’accompagnano nei momenti delicati della sua crescita. Nel 2003, a 17 anni, vince il suo primo match in un Futures locale. L’anno successivo scocca l’ora del debutto in Coppa Davis, con due match e altrettante vittorie contro Haiti. Da quel momento rispondere alle convocazioni del proprio capitano diventa un dovere, un servizio gratuito alla patria. Tra singolo e doppio – spesso in coppia con il fratello minore Martin – giocherà 37 incontri, con 28 successi all’attivo e uno score, ovviamente, in divenire. Nel frattempo continua a vincere e scalare posizioni. Nel 2005 i primi Futures, nel 2007 la stagione della consacrazione nel circuito Challenger. È ormai per distacco il numero uno del suo paese.
Pablo è un lottatore, o meglio un gladiatore. Ama Roma e adora il film di Ridley Scott, al pari di “300”: lo vede spesso e volentieri e si immagina ogni volta nei panni di Leonida, il re di Sparta che guidò con coraggio trecento uomini o poco più al cospetto dell’intero esercito persiano nella battaglia delle Termopili del 480 a.C., trovando morte e gloria eterna. Non è un lupo solitario, in giro per il tour è quasi sempre in compagnia del clan argentino (in particolare Carlos Berlocq e Horacio Zeballos), ma si fa voler bene un po’ da tutti. Non storce il naso di fronte al doppio, che lo ripaga con le maggiori soddisfazioni. Nel 2008, con il peruviano Luis Horna, vince il Roland Garros, prima coppia made in Sud America ad alzare al cielo uno slam nell’era Open. Nell’atto conclusivo battono Nestor e Zimonjic, gli stessi che fermano la loro corsa in semifinale alla Masters Cup di Shanghai di fine anno. In patria cominciano a riscoprire il tennis e lo accolgono come un eroe.
Anche in singolo non soffre di vertigini. Da sudamericano doc martella con il dritto, ma sa anche giocare con un rovescio sorprendentemente vecchio stampo, a una mano. Nel 2009 colleziona Challenger (Napoli e Montevideo tra gli altri) e raggiunge due semifinali a livello Atp, a Viña del Mar e Amburgo. Entra così nella top 50, primo uruguayano dai tempi di Marcelo Filippini a fine anni ’90. La terra resta la superficie preferita, ma pian piano prende confidenza anche con altri terreni. Ammira Rafa Nadal e la sua proverbiale “garra”, anche se considera Roger Federer il migliore della storia. Ha 25 anni, è nel pieno della maturità, pronto a vincere anche a livello Atp. Ma non sempre le cose vanno per il verso giusto e il destino può anche giocare brutti scherzi.
L’avvio di 2011 porta in dote buoni risultati e un’incoraggiante vittoria su Andy Roddick (la prima con un top 10) a Miami. Ma proprio nel torneo preferito, il Roland Garros, il ginocchio destro di Pablo dà i primi segnali di cedimento. Si ritira nel match di primo turno. La sua stagione finisce in quel preciso momento. È l’inizio di un calvario. Il tennista di Salto soffre di osteocondrosi, una sindrome degenerativa delle ossa piuttosto comune negli atleti. A ottobre si decide per l’intervento chirurgico. A una prima operazione, andata male, ne seguirà una seconda. La carriera è a rischio. Pablo non perde mai la fiducia, anche se crolla, inesorabilmente, la classifica che si era costruito con pazienza e tenacia. Sa di avere ancora una chance e lavora sodo, nella sua terra, per rientrare più forte di prima. Scompare dai radar per un paio d’anni, prima di tornare a competere nella primavera del 2013, a poche settimane dallo slam parigino. Su quel terreno, divenuto all’improvviso maledetto, riesce a scacciare le paure, superando il primo turno con una palpitante vittoria in 5 set a discapito del francese Mannarino. E in doppio, con l’amico Zeballos, conquista la semifinale. Pablo è di nuovo felice e non vede l’ora di ripartire. Ma il ginocchio non gli dà tregua, costringendolo al ritiro nel match di primo turno agli Us Open contro Janko Tipsarevic e all’ennesimo stop forzato.
Si arriva così al 2014. Il 28enne Pablo, messi, finalmente, alle spalle i problemi fisici, riprende in mano la propria carriera; anzi, ne costruisce una tutta nuova, fortificato dalle recenti sofferenze. È un anno straordinario, sul campo e nella vita privata. Luglio, in particolare, è il mese che accoglie d’ora in avanti il suo secondo compleanno. Vince il 250 di Båstad sulla terra svedese, il suo primo torneo Atp. Ci prende gusto, perché, due settimane più tardi, serve il bis. A Umag, in semifinale, si sbarazza del nostro Fabio Fognini in due comodi set; in finale risolve la pratica Robredo con lo stesso punteggio. Scala ben 191 posti in stagione, raggiungendo a fine anno il best ranking di n. 30 (proprio come Marcelo Filippini nel 1990). A ottobre la compagna Clara Ruiz dà alla luce Alfonsina, la primogenita di casa Cuevas. Dopo tante vicissitudini un momento speciale, che parzialmente lo ripaga della sfortuna accumulata nel triennio precedente.
Non è però ancora il momento di sedersi sugli allori. Pablo non si accontenta, vuole davvero scrivere la storia del tennis uruguagio. E non appena il world tour abbraccia la terra rossa, si risveglia il gladiatore che è in lui. La vittoria di San Paolo, al termine di una drammatica finale con Luca Vanni, è storia recente. Cuevas raccoglie il terzo titolo – avvicinando i 5 di Filippini – e intanto sale a ridosso della top 20, issandosi nella posizione n. 23 del ranking (record per il tennis uruguayano) come primo giocatore sudamericano della classifica. Niente male per uno che ha perso due anni di carriera ed è stato costretto a ripartire da zero, con sacrificio e quella, onnipresente, voglia di sano rock and roll.
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